Di Michael Marder, professore di ricerca IKERBASQUE presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università dei Paesi Baschi (UPV/EHU), Vitoria-Gasteiz, Spagna. È autore di numerosi articoli scientifici e 15 libri e collaboratore di LA Review of Books, The Guardian, New York Times, El Pais e altre pubblicazioni internazionali.
Proprio come le precedenti guerre contro la povertà, la droga e il terrorismo, una nuova “guerra contro COVID-19” è destinata al fallimento se si utilizza un linguaggio militaristico. Possiamo vincere solo se ripristiniamo il bene comune rovinato da decenni di politiche neoliberiste.
Quando parliamo dell’attuale pandemia di coronavirus e di una risposta concertata ad esso, dovremmo dire inequivocabilmente: “Questa non è una guerra”. È vero che questo contraddirà direttamente la posizione di molti leader mondiali, che hanno dichiarato guerra al virus. Ma negare la necessità di un inquadramento militaristico, non significa chiudere un occhio su quanto sia critica la situazione. Al contrario, aiuterebbe a cercare un modo alternativo di affrontare la crisi del coronavirus, di ispirare le persone all’azione collettiva e individuale e, in definitiva, di creare un mondo migliore quando l’attuale pandemia si esaurirà.
Medicina militaristica
La moderna medicina occidentale è incline a utilizzare linguaggi strategie di tipo militare. Diciamo che qualcuno “combatte una malattia”, che il defunto ha “perso una battaglia” con un’afflizione letale, che i tumori possono essere “aggressivi” e che, pertanto, dovrebbero essere “attaccati in modo aggressivo” con la chemioterapia. Questo modo di concettualizzare e praticare la medicina si coniuga perfettamente con la narrazione della “guerra al virus”.
Premesse storiche della “guerra al virus”
Dagli anni ’60, i governi di tutto il mondo (a cominciare dagli Stati Uniti) hanno esteso la metafora della guerra oltre il contesto delle ostilità militari come tradizionalmente inteso. Nel 1964, il presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson annunciò l’inizio di una “guerra alla povertà” per descrivere il suo tentativo di gettare le basi di uno stato sociale. Nel 1971, il presidente Richard Nixon definì l’abuso di droga “nemico pubblico numero uno” e dichiarò una “guerra alla droga”. Nel 2001, il presidente George W. Bush ha lanciato la sua chiamata alla “guerra al terrore” globale in risposta agli attacchi dell’11 settembre al World Trade Center di New York. La “guerra” del 2020 sul coronavirus dovrebbe essere vista nel contesto di queste dichiarazioni.
Nemico invisibile
Con ogni nuova dichiarazione, il presunto nemico divenne sempre più invisibile, privo di contorni riconoscibili e quindi la sua presenza potrebbe palesarsi praticamente ovunque. Con un nemico non facilmente localizzabile e potenzialmente sempre presente, la guerra diviene totale, focalizzando tutta la realtà.
La logica della guerra
Il nemico invisibile che figura in una guerra contro il coronavirus confgura una guerra senza una chiara “prima linea”. Ma se la prima linea viene cancellata, il fronte non scompare: viene tracciato tra ognuno di noi e persino all’interno di ognuno di noi, data l’incertezza sul fatto che uno sia infetto o meno dal coronavirus.
Un altro elemento tipicodellai guerra che viene distorto nelle circostanze attuali è la reale possibilità di uccidere e essere ucciso. Né il virus stesso, né quelli che infetta, hanno l’intenzione di uccidere chiunque. Quindi, in un paradigma di guerra, il ruolo del virus è ambiguo: è un nemico o un’arma? Un corpo umano potenzialmente infetto è l’arma del virus o è esso stesso un nemico? I leader che ricadono nelle metafore militaristiche hanno la responsabilità di determinare il diffondersi di un pensiero che distorce tutto in questa logica.
Vittoria
Nelle guerre che si estendono oltre la sfera dei conflitti armati tra le comunità umane, la vittoria è irraggiungibile. Così c’è la solo sconfitta. Non solo le guerre contro la droga, il terrore e ora un virus diventano onnicomprensive; non solo cancellano la prima linea e una figura nemica riconoscibile, ma hanno anche un termine temporale indeterminato, nessuna cessazione definitiva delle ostilità. Un concetto gonfiato di guerra corre il rischio di diventare una lotta per una causa persa fin dall’inizio.
Pace
Supponendo che si possa dichiarare la propria vittoria o ammettere di essere stato sconfitto in tali guerre, come sarebbe il tempo di pace che segue? In effetti, la pace non è affatto contemplata nelle ostilità contro il terrore o un virus. L’obiettivo massimalista che hanno è la completa eliminazione del nemico, il suo totale annientamento. Queste sono guerre senza pace e, quindi, senza la fine che le limiterebbe, nel tempo o nello spazio concettuale.
Distruzione del bene comune
Dopo decenni di politiche neoliberiste che hanno portato alla privatizzazione di società di servizi pubblici e fondi pensione, all’erosione dei diritti dei lavoratori, alla cessione dalla sanità pubblica e ad altri settori e servizi vitali, l’esperienza e il concetto stesso di bene comune sono stati svuotati. Di conseguenza, un appello alla popolazione affinché agisca per il bene comune cadrà inascoltato e non produrrà gli stessi effetti desiderati e carichi emotivamente di una dichiarazione di guerra, che al invece implica necessità di mobilitarsi, combinare gli sforzi individuali e fare sacrifici.
Un’opportunità unica
Per quanto terrificante e tragica, la pandemia di coronavirus presenta un’opportunità unica: ricostruire un senso di bene comune e infondere in esso un nuovo significato, fondato sull’esperienza.
Dovremmo concentrarci sui piccoli atti di gentilezza e solidarietà che ci circondano. Ciò include le persone che offrono ai vicini più anziani un aiuto per l’acquisto di cibo, provviste o medicine, il prendersi cura dei più vulnerabili. Per non parlare degli enormi rischi che il personale medico corre nel trattamento delle persone che hanno contratto il virus. Insieme ad alcune azioni del governo, come l’abolizione della differenza tra i sistemi sanitari pubblici e privati, queste esperienze possono rinvigorire la nozione stessa di bene comune.
Se un appello al bene comune dovesse avere di nuovo senso, se dovesse guidare il nostro comportamento in uno stato di crisi, sarebbe significativamente più efficace nel superare una situazione di emergenza rispetto agli appelli da stato di guerra che continuano a propinarci.