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Una traccia redatta a quattro mani da Michele Mezza e Toni Muzi Falconi per l’avvio di una possibile riflessione sul tema degli “algoritmi” in Italia e nel mondo. In vista di due incontri sul tema a Roma e Milano.


Mezzo secolo di sociologia dei consumi ci ha insegnato (almeno questo!) che il solo insorgere dei desideri e delle necessità segnala qualche subalternità verso chi li soddisfa.
Ecco allora alcune domande chiave le cui risposte consentono di acquisire un minimo di consapevolezza intorno alla dialettica sociale indotta dal digitale: possiamo ritenere ‘oggettiva’ la struttura semantica dei colossi digitali sapendo che linguaggi, modalità di accesso, selezioni dei contenuti, sistemi di catalogazione sono tutti  elementi ignoti e  privi di opzioni alternative?  Chi “negozia” l’algoritmo? Con chi? Con quali valori e interessi ?
E poi, quella delega generale affidata alla potenza computazione che standardizza i problemi e indicizza le soluzioni, non conduce ad una omologazione della conoscenza?
Qualche giorno fa il rappresentante legale di Facebook ha inviato una lettera al presidente della commissione commercio del senato degli USA John Trune spiegando che le accuse di manipolazione semantica e cognitiva ai sistemi automatici che smistano sul suo social le informazioni si devono solo a “possibili ma isolate azioni di qualche singolo tecnico  che collabora ai progetti di ricerca di Facebook per colmare il gap fra quello che un algoritmo può fare oggi e quello che ci auguriamo potrà fare in futuro”.
Questo gap è oggi forse al centro di una competizione globale di più vasta portata che ci coinvolge tutti. L’anedottica è pressante. L’automatizzazione delle attività discrezionali, quando si intreccia alla potenza di profilazione e personalizzazione delle offerte, altera le relazioni sociali e le forme linguistiche di intere comunità, come spiegava recentemente un approfondimento della Harvard Business Review.

La posta in gioco

Si gioca una partita che forse sovverte la gerarchia uscita dalla rivoluzione industriale.
La smaterializzazione dei valori e del consumo, insieme alla materializzazione  della conoscenza grazie alla comunicazione, trasforma il semplice utente in una figura potenzialmente forte, proprio per la sua inedita capacità di attribuire senso comune e credito sociale al senso del racconto, al servizio o al prodotto. Sicuramente affida ad una nuova funzione, quella del service provider, il ruolo di predisporre e incanalare le nostre richieste più personali.
Del resto, se da un lato l’utente chiede sempre maggiore personalizzazione, dall’altro il distributore di servizi e contenuti si sostituisce ai mediatori tradizionali con una offerta in larga parte gratuita, in cambio di una passiva omologazione a quei sistemi intelligenti  per cui, a fronte di una velocizzazione del servizio,  ogni sistema editoriale, ogni data base, ogni  dizionario impone un allineamento a logiche, linguaggi e discipline indotte da procedure algoritmiche ignote all’utente.

I nostri tesoretti

In una economia sempre più intrecciata alla rete sembrerebbe prodursi un riequilibrio nel rapporto fra produttore e consumatore a favore di quest’ultimo.
Per esempio: la web reputation – per cui il giudizio e le esperienze di persone che conosciamo diventano trasmissibili e consultabili riducendo così l’imprevisto di una nostra scelta grazie ai giudizi di chi quella scelta l’ha già fatta.
Per esempio: il data mining – quel processo che mediante software sofisticati ma facilmente accessibili, ci permette di raccogliere grandi quantità di dati inerenti le nostre scelte  di consumo e quindi di ricostruire profili altamente aderenti alla nostra persona, arrivando così a decifrare anche le condizioni e le premesse per decisioni future.

Eppure

Nella tradizionale relazione produzione/consumo si sono introdotti nuovi soggetti e le nostre attività quotidiane sono sempre più scandite e mediate da entità quali il software e il server. E questo rende asimmetriche le relazioni e i legami sociali.

E noi?

Queste dinamiche ci vedono socialmente esposti su vari fronti.
Uno è il settore Pubblico. Man mano che le Amministrazioni Pubbliche procedono nella digitalizzazione dei  servizi e delle identità di cittadinanza, cresce troppo lentamente una diversa cultura del controllo e del confronto sulle soluzioni adottate. Quali sono le piattaforme scelte? In base a quali modelli comportamentali funzionano? Che garanzie di autonomia e di sovranità assicurano alla comunità? Insomma, usando i nuovi dispositivi chi acquista poteri? Lo stato, Il cittadino o il gestore del sistema tecnologico?
Un altro è il settore Privato. Come si configurano le transazioni digitali? Chi controlla i dati che rilasciamo? Chi misura il modo in cui questi dati producono ricchezza ulteriore?
Pare maturo negoziare forme di discussione con i network  per arrivare ad una esplicitazione concordata dei diritti, dei doveri e dei poteri del cittadino/utente consumatore capace di ‘pungolare’ (nudge) gli imperi tecnologici verso rapporti trasparenti di reciprocità: per esempio, tu usi gratuitamente i miei dati se però io posso usare gratuitamente la tua potenza di calcolo.
 

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