Il ministro degli Affari esteri: “Social network importanti per la democrazia, ma attenti al magma della rete”. E il consigliere Luca Poma svela le strategie comunicative 2013: meno formalismi e coinvolgimento dei non addetti
La comunicazione del ministero degli Esteri si fa sempre più digital. Consapevole dei rischi, ma anche dei vantaggi che Internet può comportare per questo mondo fino a pochi anni fa lontano anni luce dalla trasparenza e rapidità dei new media, la diplomazia si attrezza per le nuove sfide: nelMaecom 2013, il programma di comunicazione per quest’anno del ministero degli Affari esteri del quale si attende a breve la pubblicazione, c’è un intero capitolo dedicato ai “new tools”, i nuovi strumenti comunicativi. Lo ha rivelato Luca Poma, consigliere del ministro degli Esteri Giulio Terzi per le iniziative di promozione innovativa e le nuove tecnologie, a conclusione del seminario svoltosi oggi alla Farnesina dal titolo “Digital Media in zone di guerra”.
“Non possiamo pensare alla sostituzione tout court della diplomazia tradizionale con quella digitale – ha detto Poma – ma dobbiamo comunque tenerne conto. Sul web – ha proseguito – la comunicazione è informale, trasparente, rapida e la pubblica opinione è sempre più coinvolta nei processi comunicativi, mentre la diplomazia old style è formale, tendente alla segretezza, con tempi più lunghi e non punta a coinvolgere i non addetti ai lavori”. Partendo da questi presupposti, nel Maecom 2013 saranno presenti alcune linee guida che il consigliere del ministro ha appunto anticipato. Innanzitutto la personalizzazione della comunicazione (perché un testo va elaborato in modo diverso a seconda che venga diffuso, per esempio, sul web o su un media cartaceo). Poi l’inclusione dei commenti “esterni” su temi e vicende un tempo monopolio dei soli diplomatici. Quindi il dialogo informale, perché, spiegaPoma, “le gerarchie formali tendono a uccidere la comunicazione online”. Occorre inoltre che la diplomazia accetti di “essere sotto controllo”, ovvero costantemente monitorata dai cittadini online e bisogna “snellire la catena di comando”, in modo che le risposte vengano date in tempi più rapidi. Infine è essenziale essere autentici, “cosa che include la capacità di chiedere scusa quando si sbaglia”, e individuare gli opinion maker in certi ambiti e territori in modo da realizzare un’informazione mirata e capillare.
Tutto questo, però, tenendo sempre a mente i pericoli della digitalizzazione. “I social media – ha affermato il ministro Giulio Terzi in apertura del seminario – sono un importante strumento di democrazia ma bisogna anche stare attenti ai rischi legati al ‘magma’ della rete.
Terzi ha ricordato il ruolo di strumenti come Facebook e Twitter nelle primavere arabe per “connettere le coscienze, favorire l’organizzazione della protesta e raccontare al resto del mondo ciò che accade durante una rivoluzione, quando i mass-media convenzionali sono oscurati dalla censura”. Negli scenari di guerra, inoltre, i digital media documentano piccole storie non coperte dai media tradizionali e le immagini e gli episodi narrati sui blog “restano come testimoni indelebili, a portata di un semplice click su Google”.
Non mancano i “rischi di abuso”, come nel caso dei video di guerra registrati con microcamere poste sull’elmetto dai militari in missione, che possono “banalizzare l’azione di guerra, trasformandola in un video-game”. Quindi, occorre “grande professionalità” nel raccontare questo tipo di eventi.
I social media garantiscono una velocità di informazione mai conosciuta, ha ribadito il ministro ricordando che il primo tweet da Haiti è stato postato 7 minuti dopo il terribile terremoto del 12 gennaio 2010, 24 ore prima della diretta televisiva. Ma ha sottolineato che utilizzare la rete come fonte di informazione aumenta il rischio di “notizie infondate” pubblicate ad esempio da persone che utilizzano false identità.
La rete, ha concluso Terzi, è un “magma di comunicazione mista a propaganda” e, per utilizzarla come fonte utile, c’è bisogno di “giornalisti preparati e rigorosi nella verifica, capaci di filtrare, approfondire e contestualizzare i fatti”.
Al seminario ha partecipato anche Amedeo Ricucci, giornalista Rai protagonista di un significativo esperimento: di recente è stato per una decina di giorni in Siria, alloggiato in abitazioni comuni a rischio bombardamento, documentando ogni momento della propria giornata con smartphone e micro-camere: immagini poi rilanciate nel sito della Rai dedicato all’iniziativa, e corredate da articoli, schede e grafica. Il materiale sarà poi utlizzato per un reportage televisivo.
Sulle potenzialità della “crowdphotography” si è invece espresso Antonio Amendola, fotografo e fondatore del progetto Shoot 4 Change, iniziativa no profit nata da un blog e diventata una piattaforma di citizen jorunalism attraverso la quale fotografi volontari contribuiscono a raccontare storie da zone di crisi o dimenticate. Anche Amendola, in Afghanistan, ha realizzato un reportage usando un semplice smartphone. “Usare questi dispositivi – ha commentato il fotografo – è un modo poco costoso, comodo ed efficace per documentare i conflitti, perché spesso, in contesti di guerra, le videocamere o le macchine fotografiche più vistose vengono viste come un’arma”.