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Cosa spinge un’azienda a comportarsi in modo più etico? Secondo l’organizzazione americana Not for Sale, che si batte contro la riduzione in schiavitù delle persone, la spinta verso un vero cambiamento non viene tanto dall’esterno, dall’opinione di clienti e potenziali e acquirenti, quanto dall’interno, dai dipendenti. Vediamo perché.
Ogni giorno in India dei bambini nati nei quartieri più poveri delle grandi città lavorano in condizioni di schiavitù per produrre palloni che poi verranno utilizzati da altri bambini, in altre aree del mondo. Nella maggior parte dei casi, questi piccolissimi operai ricevono meno di un dollaro al giorno e non hanno diritto a nulla.
Un’inchiesta giornalistica ha recentemente riportato alla luce la triste realtà dello sfruttamento della manodopera minorile nel grande paese asiatico, rivelando che nella catena di approvvigionamenti di alcuni noti produttori australiani di palloni sono presenti casi simili. Not for Sale ha dichiarato di aver proposto, in passato, ai brand “incriminati” di lavorare insieme per eliminare il fenomeno, ma ogni tentativo di modifica è stato respinto perché “troppo costoso”.
Di fatto, la prospettiva di una migliore reputazione non è sufficiente, da sola, a spingere un’azienda a spendere qualcosa in più per applicare cambiamenti importanti all’interno del proprio ciclo di produzione e della proprio catena di approvvigionamento. Anche perché perseguire o meno obiettivi sociali, ambientali o umanitari non incide (ancora) in modo determinante sui profitti. Se lo stimolo al cambiamento che può provenire dall’esterno, dall’opinione di clienti e potenziali acquirenti, non basta, cosa può “obbligare” un’azienda a comportarsi in modo etico?
La risposta, secondo Not for Sale, è di una semplicità disarmante: lo stimolo più forte al cambiamento è rappresentato dai dipendenti. E questo per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, perché essere un’azienda responsabile permette di reclutare i talenti migliori presenti sul mercato. I giovani più promettenti che oggi escono dalle università (appartenenti alla generazione dei cosiddetti millennial, che saranno la metà di quanti cercheranno lavoro nel 2020) sono molto più sensibili alle tematiche sociali e ambientali di quelli delle generazioni precedenti e, potendo scegliere tra un’azienda con un’ottima reputazione ed un’azienda dalla condotta poco chiara o – peggio – con una condotta deprecabile, tendono a preferire la prima.
A conferma di ciò, il report What workers want in 2012, realizzato per Net Impact, mostra che oltre la metà dei lavoratori aspira ad un’occupazione che le permetta di avere un impatto positivo sul mondo circostante e accetterebbe anche un salario inferiore se le venisse offerta una posizione con tali caratteristiche.
In secondo luogo, i dipendenti che vengono coinvolti nelle cause sociali e ambientali sostenute dall’azienda rendono di più e sbagliano meno: lo conferma lo studio The impact of employee engagement on performance, realizzato dalla società di consulenza australiana Insync Surveys, che mostra come un team “impegnato” è più motivato, più soddisfatto del proprio lavoro e più leale nei confronti di azienda e datore di lavoro.
Insomma, se la reputazione esterna non è (ancora) uno stimolo particolarmente sentito, l’efficienza, la qualità e la coesione interna che nascono dal perseguire tutti insieme un obiettivo etico sono indispensabili al successo di un’azienda e avranno un peso via via maggiore sulla sua competitività e sule sue performance.

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