Dal mondo dei sondaggi e la distanza, sempre più evidente tra percezione e realtà, alla fiducia sempre più volatile, fino all’associazionismo messo in discussione dai processi di disintermediazione: sono alcuni dei temi che Nando Pagnoncelli, Presidente di Ipsos Italia, ha affrontato in questa intervista con la Presidente FERPI, Rossella Sobrero.
Per chi si occupa di comunicazione e relazioni pubbliche le ricerche sono uno strumento molto importante. Nel tuo ultimo libro (“La Penisola che non c’è”) racconti il mondo dei sondaggi che dovrebbero riflettere l’immagine di una società e che invece rivelano un evidente strabismo tra realtà e percezione dovuto spesso a scarsa conoscenza. Ci spieghi meglio?
Negli ultimi anni l’opinione pubblica ha assunto un’importanza crescente non solo per il mondo delle imprese, ma anche per la politica e le istituzioni. Conoscere le opinioni, gli atteggiamenti e i comportamenti dei consumatori è diventato un elemento imprescindibile per la messa a punto delle strategie di marketing e di comunicazione delle aziende. Più problematico, invece, è il rapporto tra politica, mezzi di informazione e opinione pubblica. Le opinioni dei cittadini infatti sono spesso basate su percezioni distanti dalla realtà, soprattutto quando si ha a che fare con i temi di stretta attualità. Per misurare la distanza tra la percezione e la realtà Ipsos dal 2014 realizza ogni anno una ricerca, intitolata “Perils of percepions”, in cui si chiede ad un campione di cittadini residenti in numerosi paesi, di stimare in percentuale alcuni fenomeni: ad esempio quanti sono i disoccupati, gli anziani, gli stranieri, i giovani che vivono ancora con i genitori, le persone che soffrono di una determinata malattia, ecc. Calcolando per ciascun fenomeno la media delle risposte fornite dal campione e confrontando il valore medio con il dato ufficiale, si osserva che l’Italia tra i 14 Paesi presenti fin dalla prima edizione della ricerca è il paese che fa registrare il divario più elevato tra percezione e realtà. Insomma, gli italiani tendono a sovrastimare, talora significativamente, la portata di molti fenomeni, soprattutto quelli che preoccupano maggiormente. Ciò dipende dalla bassa scolarità degli italiani e dalle modalità con cui le persone si informano e, a questo proposito, basta analizzare i cambiamenti della dieta mediatica dei cittadini registrati negli ultimi dieci anni per capire come prevalga un’informazione di superficie, poco approfondita. E ciò rappresenta un paradosso, perché siamo immersi in un ecosistema mediatico, siamo iper-stimolati in termini di informazione, ma ciò non ha consentito di aumentare le conoscenze dei cittadini e il loro discernimento. Ma le percezioni per i cittadini sono la realtà, pertanto orientano le loro opinioni e i loro comportamenti. Si comprende quindi quale sia il rischio di una politica che, abdicando al proprio ruolo, per definire la propria agenda insegue le opinioni (distorte) dei cittadini, rischiando di determinare una sorta di cortocircuito della democrazia.
Il tema della fiducia è quanto mai di attualità: per chi si occupa di relazioni pubbliche come noi è un argomento molto importante. Quali segnali vedi dal tuo osservatorio?
La fiducia, soprattutto nell’inedito contesto che stiamo vivendo, è essenziale ma rischia di essere volatile. Non rappresenta un’apertura di credito a tempo indeterminato. Basta pensare al profondo cambiamento nel sentiment dei cittadini che le ricerche sociali hanno registrato in questa fase caratterizzata dalla seconda ondata di Covid, rispetto alla prima. Se nei mesi in cui l’emergenza sanitaria era più acuta i cittadini hanno risposto con grande senso di responsabilità, unito a un sentimento di concordia largamente diffuso, oggi le reazioni sono di segno diverso. D’altra parte, se il virus è considerato “democratico” perché colpisce tutti indistintamente, la crisi economica è selettiva e asimmetrica: mette a nudo le differenze tra garantiti (reddito fisso e pensioni) e non garantiti.
Se durante il primo lockdown le critiche al governo e alle amministrazioni regionali non facevano breccia tra i cittadini, decisamente refrattari alla caccia alle streghe, nella seconda ondata le categorie più interessate dai provvedimenti restrittivi hanno reagito duramente.
L’atteggiamento comprensivo e collaborativo manifestato dalla stragrande maggioranza dei cittadini nella scorsa primavera ha lasciato spazio a critiche e recriminazioni non solo da parte di chi è stato costretto a chiudere la propria attività, basti pensare alle riserve sul numero dei posti letto nei reparti di terapia intensiva delle strutture sanitarie o alle polemiche sulla scuola e sui trasporti pubblici locali.
Siamo passati dall’”andrà tutto bene” al pessimismo prevalente. Dalla concordia, al rischio di un “tutti contro tutti”. Si mettono sullo stesso piano l’apertura delle scuole e quella delle piste da sci.
Per ridare un po’ di fiducia credo siano decisive tre questioni: innanzitutto la scelta degli interventi da adottare per contrastare gli effetti della crisi e favorire una vera e propria trasformazione del Paese, affrontando le questioni irrisolte; si tratta di contemperare gli interventi mirati a vantaggio delle categorie più esposte alla crisi economica con la definizione di un “progetto paese” ambizioso che affronti i nodi strutturali e ponga le basi per il rilancio e la crescita con obiettivi di medio-lungo termine (non a caso gli interventi UE sono stati battezzati “Next generation EU”).
In secondo luogo, sarà utile porre attenzione al “racconto” del Paese. In una ricerca recente abbiamo misurato il livello di conoscenza di una ventina di primati italiani: ebbene, il primato più conosciuto è quello dei siti Unesco (poco più di un italiano su tre ne è a conoscenza); solo uno su cinque sa che siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa e solo uno su dieci che siamo il paese europeo con il più altro tasso di riciclo dei rifiuti. E potrei continuare. Le percezioni sbagliate e la scarsa conoscenza dell’Italia inducono la maggior parte degli italiani ad avere uno sguardo severo, negativo, svalutativo del loro paese. Riconoscere le cose che funzionano, non significa negare o tacere quelle che non funzionano. Pensare e parlare bene dell’Italia non è “di destra” o “di sinistra”, ma è espressione del “patriottismo dolce” a cui ci esortava il Presidente Ciampi.
Infine, sarà decisivo il metodo che verrà adottato per la definizione del “progetto Paese”: nelle situazioni di difficoltà l’Italia è riuscita ad ottenere i risultati migliori coinvolgendo le parti sociali, le forze politiche, i corpi intermedi, il mondo dei mass media. Il “metodo concertativo” richiede uno sforzo di tutti i soggetti coinvolti, alla ricerca di un “compromesso alto”. Viceversa, se l’atteggiamento è quello di una gara di tiro alla fune si rischia di acuire le divisioni e le fratture sociali.
L’ultima domanda è sull’impegno associativo che ti ha visto attivo per alcuni anni come presidente di ASSIRM e Consigliere di Pubblicità Progresso. Quali pensi debba essere oggi il ruolo delle associazioni di rappresentanza?
Le associazioni negli ultimi tempi, prima del Covid, avevano subito le conseguenze dei processi di disintermediazione che hanno investito non solo la politica ma quasi tutte le forme di rappresentanza.
Non si è trattato di una delegittimazione ma di una evidente messa in discussione del valore dei corpi intermedi. Le diverse ricerche realizzate fino al 2019 da Ipsos per le associazioni di rappresentanza (datoriali e sindacali) avevano messo in evidenza un cambiamento nelle aspettative degli associati, che risultavano quasi esclusivamente incentrate sull’erogazione dei servizi a fronte di un affievolimento dei valori di cui la propria associazione è portatrice. Tuttavia, tra i tanti cambiamenti che il Covid ha determinato, c’è un ritorno di importanza attribuita dai cittadini alla delega e ai corpi intermedi, come spesso accade nelle situazioni di emergenza, e come abbiamo riscontrato in una nostra ricerca avviata prima della pandemia e conclusa a fine maggio per la Fondazione Astrid e la Fondazione per la Sussidiarietà. Siamo in presenza di un’occasione unica che non va sprecata. I mondi associativi devono essere consapevoli che questo ritorno di fiducia da parte dei cittadini è accompagnato dall’aspettativa che sappiano far coesistere gli interessi settoriali con quelli generali. Insomma, meno spirito corporativo e più responsabilità sociale.