C’era una volta l’impresa che faceva l’impresa e lo Stato sociale che faceva lo Stato sociale. Poi venne l’epoca dello Stato sociale che faceva l’impresa (si veda a titolo di esempio l’impostazione della politica sanitaria della Regione Lombardia) e dell’impresa che faceva lo Stato sociale (dalla contrattazione aziendale di Luxottica al referendum Fiat per la deroga al CCNLL). Infine, fu il tempo dell’impresa sociale, non solo nella forma giuridica, quanto nell’approccio al business. Sociale, nel senso etimologico del termine: ciò che concerne la società, ovvero la persona. L’assunto di base è semplice, talmente banale da essersi perso nei meandri della Storia, ed essere stato riscoperto solo grazie ad un processo di nemesi (ovvero la finanza che finanzia la finanza): è l’economia al servizio dell’individuo, e non l’individuo al servizio dell’economia.Un’affermazione talmente banale da divenire il tema cardine del dibattito che alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile di Rio vedrà impegnate tutte le principali istituzioni del mondo. L’obiettivo finale del consesso che avrà luogo nei prossimi giorni sarà infatti quello di “rafforzare l’impegno politico per lo sviluppo sostenibile con l’identificazione di un nuovo paradigma di crescita economica, socialmente equa e ambientalmente sostenibile”. Obiettivo ambizioso, che può passare solo da un’unica via: la cooperazione tra attori economici (tra cui le imprese), istituzioni di governo, società. E la domanda è: come?Nel novembre 2011, Harvard Business Review in un noto articolo denominato “The good Company”, sentenziava che “companies that perform best over time build a social purpose into their operations that is as important as their economic purpose”. In sintesi, è tempo di superare la dicotomia tra capitale e lavoro, per giungere a considerare l’impresa come un vero attore sociale (che dunque deve comportarsi come tale, ovvero “responsabilmente”) al pari dell’individuo, del nucleo familiare, delle istituzioni, eccetera.Come coniugare il paradigma di un mercato capitalistico con il concetto di bene comune? Per usare le parole di Stefano Zamagni (2007), ai suoi inizi l’economia di mercato si caratterizzava come economia dal valore civile, in cui ai principi di scambio di valore e redistributivo si associava il principio di reciprocità. Fu con l’avvento dell’economia capitalistica che il principio di reciprocità venne abbandonato e con esso cadde anche l’interesse verso il bene comune. “Nel bene comune – scrive Zamagni – il vantaggio che ciascuno trae per il fatto di far parte di una certa comunità non può essere scisso dal vantaggio che pure altri ne traggono. L’interesse di ognuno si realizza assieme a quello degli altri non contro né a prescindere”. Zamagni apre la strada allo sviluppo dell’economia del bene comune, in cui l’impresa ha senza dubbio un ruolo rilevante.Lo scorso anno, Christian Felber compie un ulteriore passo avanti con la pubblicazione del saggio “Nuovi valori per l’economia”, che dà il passo a una piccola rivoluzione. Felber, che nei primi giorni di giugno è stato ospite al Festival Dell’Economia di Trento, teorizza un nuovo modello economico, denominato Gemeinwohl-Oekonomie, ovvero “economia del bene comune”, che supera il capitalismo e tenta di indicare un nuovo paradigma che passi attraverso due attori chiave: le istituzioni e le imprese. Il modello proposto da Felber, sintetizzato in diciassette “azioni”, è idealmente suddividibile in due macro ambiti: una nuova concezione di economia e una nuova concezione di democrazia.Concentriamoci sul primo. L’economia del bene comune si basa sui valori fondamentali che portano alla riuscita delle relazioni interpersonali degli individui. Tradotto in termini di etica d’impresa: la corporate social responsibility non è altro che una “personal social responsibility” trasferita ad un soggetto organizzativamente più ampio: l’impresa, appunto. L’atteggiamento della stessa sul mercato non è più di concorrenza con i peers, ma di cooperazione e partnership, per una crescita organica e omogenea. La rendicontazione di impresa non è solo economico finanziaria ma diviene volta alla misurazione del bilancio del bene comune (per l’impresa) e del prodotto interno del bene comune (per il sistema). Il profitto si trasforma da fine a mezzo ed è diretto soltanto al raggiungimento della nuova mission sociale. Attraverso un sistema di rating, le imprese virtuose vengono facilitate dallo Stato sul piano giuridico e fiscale, sia per avvantaggiare realtà che attuano best practice di sostenibilità (contestualmente penalizzando le aziende socialmente irresponsabili), sia al fine di agevolare l’ingresso nel mercato di start up e nuovi prodotti coerenti con tale visione, ovvero intrinsecamente a valore ambientale e sociale. Proprio perché il profitto è solo un mezzo, le imprese possono mirare al raggiungimento delle loro dimensioni ottimali, trascurando il mito della crescita costante. Nel caso di grandi imprese, deve essere ampliata la base decisionale (governance) ad attori attualmente esclusi, come dipendenti o altri stakeholder rilevanti, e viene ridotto l’orario di lavoro per liberare tempo alle attività relazionali e assistenziali delle persone, in tal modo sgravando il compito al sistema di welfare statale.Felber si spinge ancora oltre e arriva a teorizzare proprietà comuni democratiche, al servizio del bene comune e controllate dalla collettività, ovvero aziende a gestione comune nell’ambito dei servizi di base e della “previdenza esistenziale”, alcuni limiti alle differenze di reddito tra cittadini, e la Banca Democratica, controllata dalla collettività e non dal governo, che metta a disposizione solo servizi fondamentali. Il tutto, inserito in un sistema democratico partecipativo che prevede strumenti di democrazia diretta.Questa la visione dell’economia del bene comune di Felber, un mix tra buon senso, equità ed efficienza, etica d’impresa e utopia. Un modello visionario? Forse sì. Ma ci sono alcuni numeri che parlano chiaro. In un solo anno, oltre 700 aziende (prevalentemente di dimensioni piccole o medie) di 15 differenti Paesi hanno aderito al manifesto (oltre a 120 organizzazioni pubbliche e a 50 esponenti politici, per lo più con incarichi locali, ça va sans dire). Aderire al progetto comporta per ciascuna impresa la presentazione di un bilancio del bene comune, secondo le linee guida messe a punto dal gruppo di lavoro di Gemeinwohl-Oekonomie nella Matrice del Bene Comune. Una matrice che parte dai framework di reporting più comuni (come ad esempio il GRI) e si spinge fino a richiedere informazioni ad oggi estranee ai rapporti di sostenibilità, come ad esempio l’inclusione di criteri sociali ed ambientali nella scelta dei servizi finanziari/di investimento, la solidarietà con imprese partner attraverso la condivisione di know how per favorire una crescita del sistema, la cogestione dell’azienda con gli stakeholder. La matrice richiede trasparenza anche relativamente a “criteri negativi”, come ad esempio la produzione di prodotti ad obsolescenza programmata, la disparità salariale tra uomo e donna, i processi di delocalizzazione nonostante bilanci in attivo, la presenza di società figlie in paradisi fiscali.In conclusione, il modello di Felber è in sé per certi versi interessante (per quanto per alcuni aspetti attualmente inapplicabile) ma è soprattutto uno strumento utile a spostare il centro della riflessione che concerne l’etica d’impresa verso le opportunità offerte dalla congiuntura di questi anni (opportunità che Rio+20 potrà contribuire a consolidare): identificare un nuovo paradigma economico (e dunque nuovi modelli di business e di management delle imprese) che sappia rimettere al centro dell’attenzione il bene comune.
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