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Facebook – oggi Meta, dopo il rebranding del 2021 – non è certamente nuova a crisi reputazionali di ampia portata: è stata a più riprese coinvolta in scandali che hanno avuto risonanza mediatica mondiale, a partire da quello – notissimo – di Cambridge Analytica, che vide l’azienda coinvolta nel mercato delle vendite dei dati personali degli utenti a fini di micro-targeting politico, passando attraverso le influenze russe sulle elezioni 2016 in USA, evento che ha visto l’azienda di Menlo Park essere lo strumento (inconsapevole?) di una manipolazione dell’infosfera da parte dell’intelligence di Mosca, fino all’ultimo in ordine di tempo, deflagrato alcuni mesi fa, relativo alle dimissioni della Data-engineer Frances Haugen, sconcertata dagli standard etici dell’azienda, a suo dire del tutto inadeguati nel contrastare – tra gli altri problemi – niente meno che la tratta online di esseri umani, lo spaccio di droga attraverso la piattaforma stessa e la manipolazione di bambini e adolescenti a fini commerciali.

Il colosso americano vanta circa 2,8 miliardi di utenti mensili (1,84 miliardi di utenti attivi ogni giorno) e si riconferma, nonostante la forte concorrenza, come la piattaforma social preferita dagli utenti in rete, raggiungendo il 59% dei fruitori di internet. Fin dalla sua creazione, Facebook ha dominato il mondo dei social media, nonostante diversi competitor come Instagram (poi acquisito da Facebook), Snapchat o Twitter, e più recentemente TikTok, sia siano fatti strada con ottimi risultati. Facebook non manca certamente di meriti: aver dato l’opportunità a persone di ritrovarsi sulla rete e rendere possibile e semplice il contatto tra utenti lontani geograficamente, specie nei Paesi più remoti, rafforzando l’idea di community virtuale e riuscendo a intercettare bisogni di svago e di relazione degli utenti online.

Per contro, l’azienda appare sistematicamente inadeguata nel rispondere alle sfide più contemporanee, specie sul fronte della difesa dei diritti fondamentali degli utenti, come conferma questo nuovo caso di crisi che vede coinvolta la multinazionale americana.

Mancata difesa dei diritti delle donne perseguitate: un nuovo scandalo

In effetti i problemi per il colosso di Menlo Park e il suo fondatore Mark Zuckerberg paiono non avere mai fine: Wired USA in un suo articolo denuncia come Meta sia accusata di colpevole lassismo nel tutelare la sicurezza delle donne in Iran, in particolare le attiviste per i diritti umani.

Da mesi, infatti, i gruppi di cittadini che si occupano di diritti delle donne in Iran vengono perseguitati da Bot e da profili Fake che si aggregano in massa ai loro account Instagram, seguendoli, per poi pregiudicare l’attività informativa sulla tutela dei diritti umani, ad esempio “segnalando” specifici post da migliaia di utenze in contemporanea, ottenendone la rimozione/cancellazione, puntualmente disposta dai sistemi automatici di Meta, in prima istanza non presidiati da esseri umani e quindi di fatto incapaci di discernere tra una segnalazione motivata e una faziosa ed eterodiretta. 

Nonostante le richieste di intervento fatte arrivare ripetutamente a Meta – che controlla Instagram, oltreché Facebook – la situazione non sta trovando soluzione. Le attiviste per i diritti delle donne affermano di aver subito repressioni particolarmente aggressive da parte del governo Iraniano negli ultimi mesi, inclusi casi di sorveglianza, nella vita reale, da parte delle forze dell’ordine, culminati in arresti: ad esempio, in occasione della “Giornata nazionale dell’Hijab e della castità”, celebrata in 12 luglio, un numero significativo di donne ha partecipato a proteste legate all’hashtag #No2Hijab, levandosi il velo in pubblico, e venendo poi in molti casi arrestate dalla feroce “polizia religiosa”, sempre molto aggressiva verso qualunque manifestazione di dissenso popolare.

La (feroce) repressione in Iran

La libertà sociale in Iran, sotto il governo della dittatura teocratica di stampo Khomeinista, è da sempre in discussione, e le repressioni dei cittadini – anche violente – sono all’ordine del giorno, ma Instagram è uno dei pochi social media internazionali accessibili e ancora non completamente censurati, in un panorama digitale in generale sotto stretta sorveglianza. Tuttavia, i forti rallentamenti della connessione web a fini di controllo sociale, che possono giungere fino allo spegnimento quasi totale di internet nell’intera nazione, sono pratiche piuttosto comuni per il Governo di Teheran, al fine sia di censurare specifici contenuti sgraditi, ma anche e soprattutto per impedire il diffondersi a livello internazionale di foto e video relative alle periodiche proteste di piazza organizzate da cittadini insofferenti verso la soffocante dittatura dei Mullah.

Shaghayegh Norouzi, attivista per i diritti delle donne, in relazione alle recenti vicende che riguardano Meta, denuncia: “Se per esempio stiamo lavorando a una denuncia di violenza sessuale da parte di una persona che ha forti legami con il governo, veniamo sommersi da un sacco di follower falsi. Negli ultimi dieci giorni, oltre 100.000 account falsi hanno iniziato a seguire il nostro account pubblico. Segnalano ripetutamente i nostri post, e Instagram li rimuove. Questi attacchi compromettono in modo specifico la capacità di diffondere il nostro messaggio e di entrare in contatto con le donne e le minoranze che hanno bisogno di aiuto“. Secondo osservatori indipendenti, circa trenta gruppi per i diritti delle donne iraniani locali, e quaranta nel resto del mondo, sono stati attaccati in questo modo.

La reazione – del tutto inadeguata – di Meta/Facebook

Nonostante un rapporto della Media Foundation Qurium abbia dimostrato che Meta era a conoscenza del grave problema fin da aprile 2022, la reazione è stata – come al solito – blanda e inefficace. I portavoce di Meta hanno dichiarato che “un’indagine sugli attacchi dei Bot in Iran era in corso”, accompagnando lo statement con le solite frasi vuote di significato nei quali gli addetti alle pubbliche relazioni di Menlo Park paiono essere davvero esperti: “Vogliamo che tutti si sentano al sicuro su Instagram, in particolare gli attivisti, sia in Iran che nel resto del mondo. Stiamo continuando a indagare sulle segnalazioni e prenderemo provvedimenti “.

Alla fine di giugno, un consorzio di attivisti ha rilasciato una dichiarazione relativa a questi attacchi verso gruppi di donne iraniane, tramite la no-profit AccessNow, esortando Meta a prendere provvedimenti più incisivi: l’azienda a quel punto ha confermato di aver eliminato gradualmente centinaia (!) di account Instagram coinvolti, dimostrando di ignorare colpevolmente (o dolosamente?) l’entità e la portata del problema, che coinvolge milioni di account, com’è noto a tutti gli addetti ai lavori.

Alla domanda su cosa potrebbe giustificare le aggressioni rilevate dagli attivisti sui loro account, Meta ha rifiutato di commentare in via ufficiale, decidendo – gravemente, a mio avviso – di non prendere posizione e non schierarsi, di fatto, su un tema fortemente sensibile dal punto di vista sociale, e confermando una volta di più – semmai ve ne fosse stato bisogno – il proprio DNA “business & marketing oriented”.

I ricercatori al lavoro sul dossier hanno scoperto che i Bot utilizzati in aprile e maggio sembravano essere stati acquistati da alcune specifiche società di social media marketing con sede in Pakistan: queste aziende pubblicizzano servizi che permettono a un cliente di acquistare 10.000 follower Bot per la ridicola cifra di 50 dollari, e fino a un milione di account falsi per circa 1.500 dollari, riporta Wired. Ai Bot automatizzati, si somma l’attività di un numero impressionante di account fake, in parte probabilmente riconducibili alle cyber-truppe iraniane, parte dei servizi di sicurezza interni, molto attivi nel controllo e nella repressione negli ecosistemi digitali, e in parte provenienti da “troll-farm” a pagamento, vere e proprie aziende che affittano forza lavoro per questo genere di attività malevole, eludendo qualunque normativa e codice etico.

Un (in)spiegabile “muro contro muro”

È di tutta evidenza che Meta abbia tardato a indagare sul problema, nonostante disponesse di documentazione e di prove sufficienti per intervenire rapidamente, considerato che gli account falsi violano palesemente gli standard della community. Tord Lundström, direttore tecnico di Qurium, ha riferito ad esempio di aver cercato (inutilmente) di dare suggerimenti concreti all’azienda su come indagare e identificare i Bot che l’organizzazione ha scoperto nella sua analisi, ma i riscontri sono stati molto blandi.

Secondo Wired USA, la risposta di Facebook si può riassumere così: “Stiamo indagando, è un problema molto difficile da risolvere, abbiamo molte persone che ci stanno lavorando”. Nel mentre, nulla di concreto succede, e le donne iraniane continuano ad essere perseguitate.

Lundström ha chiarito che “L’industria dei follower, dei like e delle recensioni false ha una solida presenza all’interno di Facebook, da anni”, e che la sua Fondazione ha puntualmente identificato decine di portali all’interno della piattaforma che forniscono questo tipo di servizi: secondo gli specialisti interpellati da Wired USA “ci vorrebbero pochi secondi per trovarli, ma Facebook incontra inspiegabili difficoltà a fermare questo mercato”.

Milad Keshtan, responsabile del programma United For Iran, ha espresso a Wired perplessità analoghe: “Abbiamo elementi molto chiari che confermano che Meta potrebbe aiutarci a combattere queste campagne, ma non abbiamo ottenuto alcuna risposta da parte dell’azienda, nonostante l’abbiamo contattata ripetutamente“. Dopo queste dichiarazioni, Meta ha ribadito genericamente che “un’indagine è in corso” (questo l’abbiamo capito…). L’attivista Norouzi ha aggiunto: “Siamo sconvolte dal fatto che Instagram permetta ai detrattori di usare la propria piattaforma per soffocare le voci delle donne e delle minoranze“.

In definitiva, pare che qualunque attività di contrasto a ciò che porta accessi sulla piattaforma (e quindi denaro, grazie al costo delle inserzioni pubblicitarie, direttamente proporzionali al traffico) non sia percepito come una priorità, da parte dei team di Zuckerberg.

Team peraltro fortemente sotto-dimensionati: sorprendentemente, con oltre 85 miliardi di giro d’affari all’anno, dei quali ben 30 miliardi di utili netti, Meta ha in tutto il mondo solo 58.000 dipendenti, una forza lavoro palesemente inadeguata a gestire efficacemente tutte le complessità proprie della più grande piattaforma web del pianeta. Si sa, il personale in carne ed ossa costa, i sistemi automatizzati invece non protestano mai e non chiedono neppure ferie: fatto sta, che l’assunzione di nuovo personale qualificato pare non essere all’ordine del giorno per Zuckerberg.

Gli effetti sulla reputazione (e sul valore) dell’azienda:

Com’è noto, la reputazione è attualmente considerato come il più importante asset intangibile per un’organizzazione, quello di maggior valore sotto il profilo economico-finanziario: una buona reputazione è in grado di condizionare i comportamenti di acquisto di prodotti e servizi, aumenta quella che in gergo tecnico definiamo “la licenza di operare” di qualunque organizzazione, ovvero la disponibilità e la fiducia che i cittadini garantiscono a un’azienda permettendole quindi di ampliare il proprio business, e aiuta a proteggere dalle crisi reputazionali.

Meta risulta essere sorprendentemente una multinazionale a “bassa cultura” su queste importanti tematiche, in particolare sul fronte dell’adozione di strumenti utili per prevedere e gestire le crisi, difendendo il perimetro reputazionale dell’organizzazione e contenendo i danni: Invece di scambiare autenticità, ascolto e un prodotto di qualità con i 2 miliardi di utenti che hanno letteralmente consegnato le proprie vite nelle mani del colosso del Social, pare essere attenta soprattutto ai profitti a breve termine, senza preoccuparsi di costruire solido valore nel medio-lungo termine, ed anzi – inspiegabilmente – impegnandosi attivamente per distruggerlo, dal momento che è dimostrato dalle evidenze di letteratura e di pratica professionale che il mancato inserimento di preoccupazioni etiche nel business pregiudica, alla lunga, il valore per gli azionisti.

Se Facebook/Meta non inizierà a utilizzare la propria capacità di migliorarsi allineandosi alle aspettative del mercato e dei cittadini, per evolversi in un social network più affidabile, inclusivo, sostenibile e attento ai diritti degli utenti, possiamo scommettere che qualcun altro, prima o poi, capirà come farlo ed entrerà sul mercato con un nuovo modello di business. Con grande gioia per molti.

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