E’ una delle equazioni dell’innovazione: aggregare nelle imprese competenze, culture e sensibilità diverse costituisce un fattore evolutivo
Se l’iperspecializzazione tecnologica è un must necessario per un mondo dove l’innovazione corre in modo esponenziale, l’importanza delle persone nell’immaginare e concepire tutto ciò che sia “made for human” ma sostenibile è sempre maggiore. Per questo motivo le imprese hanno necessità di includere i più disparati punti di vista, le più ampie esperienze, i background più diversi. E parallelamente tutto questo si riflette in ciò che si porta sul mercato, sul posizionamento e sulla comunicazione. Tanto che oggi si comincia a parlare di brand inclusivi nel senso in cui riescono a posizionarsi in modo da rispondere a qualsiasi audience, senza distinzioni caratteristiche.
Sul tema è stato effettuata la ricerca Diversity Brand Index, uno studio approfondito di Focus Mgmt presentato all’evento Diversity Brand Summit a Milano il l’8 febbraio 2018.
Lo studio ha consentito di costruire un indice (il Diversity Brand Index) per misurare il livello di inclusione dei brand rispetto ai consumatori finali. Inoltre ha consentito di studiare l’impegno concreto delle imprese sul tema D&I mediante una ricerca avvenuta con una fase attraverso il web e una seconda fase con la valutazione di progetti e iniziative effettivamente realizzati dalle aziende. L’indagine via web è stata effettuata attraverso il metodo Cawi su un campione di 1.068 rispondenti.
Rispetto al concetto di diversità, la survey ha preso in considerazione una classificazione composta da 7 cluster: credo/religione, disabilità, età, etnia, genere, orientamento sessuale, status socio-economico. Le domande sono state precedute da una verifica circa il tema affinché i rispondenti avessero cognizione di causa. In particolare per ogni genere di diversità si è sondato il grado di familiarità al tema, di relazione e coinvolgimento attraverso una griglia analitica. Dal sondaggio effettuato è emersa una segmentazione della popolazione italiana in sei macro cluster. Il 24,6% sono gli “impegnati”. Si tratta di donne e uomini con età media di 42,5 anni, reddito e istruzione oltre la media che dimostrano di essere informate, coinvolte e vicine rispetto la diversità di tipo etico, religioso con risvolti etici. Si dichiarano socialmente responsabili. Il 27,3 costituisce il cluster dei “coinvolti”. Età media di 42 anni, reddito più alto della media sono molto orientati alla famiglia. Dichiarano un alta consapevolezza con le forma di diversità ma non hanno abitudine a interagire con queste. Un terzo cluster è quello degli “idealisti” (15,4%). Età media di 39 anni, prevalentemente uomini (57,3%) hanno un reddito più basso della media ma un tasso di istruzione universitaria più alta. Esprimono un senso superiore dell’etica e si sentono coinvolti dai temi della diversity solo a livello teorico. Con il 13% del campione troviamo i “consapevoli”. Si tratta prevalentemente di donne (55,9%) con età media di 41 anni. Hanno un reddito e un livello di istruzione dichiarato superiore alla media, sono consapevoli ma scarsamente coinvolti. Esprimo maggior vicinanza ai temi dell’invecchiamento e dell’orientamento sessuale. L’8,3% del campione è costituito dai “menefreghisti”. Sono uomini e donne con un’età media di 42 anni, un reddito dichiarato più basso della media, pensano solo a sé stessi o alla loro famiglia, non conoscono i temi della diversità e non sono interessati ad approfondirli. Infine con l’11,4% si trova il cluster degliarrabbiati. Sono donne e uomini con un età media di 47 anni e reddito nella media. Si confrontano frequentemente con la disabilità, con persone molto anziane e con indigenti a livello economico. Sono persone che si dimostrano spiccatamente individualiste e non hanno interesse verso la diversity.
Il tema della diversity è entrato nel sentire comune abbastanza profondamente, un po’ perché si trova nella vita reale delle persone, (invecchiamento, crisi economica, migrazioni ecc.), un po’ perché la società si è spontaneamente evoluta anche sotto l’influenza dei media e dei soggetti di riferimento dei vari segmenti. Tuttavia rimane la distanza tra la teoria e la pratica. La ricerca mette in luce un interesse degli italiani per la diversity ma allo stesso tempo, uno scarso comportamento proattivo con limitata relazione con le diverse forme di diversity. Le forme di diversità per le quali gli italiani dichiarano di essere più preparati sono la senilità, la disabilità, lo status socio-economico, aspetto con il quale si ha maggiore relazione mentre la distanza maggiore è con le minoranze etniche e religiose con le quali si interagisce poco. Appaiono significative alcune considerazioni che i ricercatori hanno effettuato sui vari cluster emersi. In particolare gli idealisti sembrando prevalentemente sorretti da un senso dell’etica ferreo che li porta ad essere “politicamente corretti”; tuttavia si applicano poco. Spicca la dimensione del cluster degli Impegnati che vale quasi un quarto di tutto il panel. Questi si spendono effettivamente nella relazione con la diversity. Tanti italiani sono sensibili sul tema diversity (la stragrande maggioranza), desiderano che se ne parli diffusamente ma solo una parte minoritaria interagisce, si impegna concretamente. Tuttavia questa parte vale sostanzialmente un italiano su quattro. Al di la dei dati della ricerca, vi sono alcuni macro trend generali che caratterizzano i tempi attuali, che impattano su tutto il vivere sociale e anche sulla diversity. Uno di questi è l’arretramento sociale di tipo economico che genera reazioni emotive predominanti in alcuni soggetti. Poi vi è un generale disimpegno trasversale ai Millennials e non solo, che favorisce la teoria a discapito della pratica.