Anatomia di una caduta: cosa insegna il caso Amabile

In caso di dibattito pubblico, il nostro cervello tende a utilizzare scorciatoie cognitive che ci rassicurano circa la nostra preparazione e competenza, e il nostro “titolo” a parlare. È un fenomeno ampiamente studiato dalla psicologia cognitiva, al quale si riferisce anche il Dunning-Kruger effect [1]: paradossalmente, in molti casi, meno l’essere umano pradroneggia un argomento, più tende a sopravvalutare la propria competenza a riguardo, al punto che durante la pandemia di Covid-19 nel 2020 abbiamo assistito a una moltiplicazione di virologi, mentre se il dibattito si sposta sul Ponte sullo Stretto, improvvisamente spuntano ingegnere ed esperte di viabilità (avviso alle lettrici e ai lettori: in questo articolo mescolerò maschile e femminile sovraesteso).
Uno dei tanti temi caldi sono gli scivoloni reputazionali, meglio se legati ad aziende guidate da donne (l’accanimento, inutile negarlo, è sempre più severo quando si tratta di un volto femminile e piacente, e su questo vi invito a leggere autrici esperte sul tema [2]). L’ultimo caso iper-commentato è quello di Martina Strazzer e della sua azienda, Amabile.
Come professionista, amo documentarmi, studiare i dossier, analizzare i casi, piuttosto che rincorrere il commento estemporaneo “pur di esserci a tutti i costi”.
Eppure mentre scrivo questo articolo, la mia natura pacifica e la scarsa inclinazione a litigare con i tanti fuffaguru che si auto-attribuiscono il titolo di esperti è evaporata di colpo aprendo TikTok, quando sono stata investita una valanga di contenuti di una tale sciatteria che sono balzata dalla sedia. Impossibile, per etica e responsabilità professionale, tacere oltre.
Prima di addentrarci nell’analisi conviene mettere ordine. La trama è assai nota, ma un breve riassunto dei fatti può essere utile (chi già conosce la storia potrà saltare a piè pari il prossimo paragrafo).
La storia di Amabile è un classico esempio di successo digitale che tanto piace raccontare ai giornali: Martina Strazzer, giovanissima, fonda il marchio di gioielli nel 2020 con poche risorse, direttamente dalla sua cameretta, e in pochi anni porta i ricavi a quasi dieci milioni di euro. Un percorso che si regge non tanto sul prodotto quanto su una strategia comunicativa centrata sulla persona: il volto della fondatrice diventa la garanzia di autenticità, la crescita del brand viene raccontata passo dopo passo, la quotidianità della vita in ufficio è trasformata in contenuto. In un’intervista a Repubblica [3] Strazzer aveva riassunto così la formula del successo di Amabile: “Mostrare l’azienda come è, un posto di lavoro diverso, le persone che ci sono dentro, la quotidianità di quello che facciamo, dare ai clienti la sensazione di crescere insieme con loro, davanti ai loro occhi”.
Oggi Martina e Amabile contano quasi un milione di follower su Instagram e oltre due milioni su TikTok. Il target è quello delle giovanissime: una community che ritrova nel brand i valori e i linguaggi della Gen Z, dai riferimenti alla salute mentale all’inclusività sul lavoro. Uno stile imprenditoriale aperto e co-partecipato, che può risultare virtuoso se costruito con coerenza, ma altrettanto fragile se la narrazione non trova riscontro nella pratica. Ed è proprio in questa tensione tra promessa e realtà che sono nati i primi attriti: già nel 2023 la collezione benefica Amore Dannoso era stata accusata di purpose washing: lanciata proprio nei giorni del femminicidio di Giulia Cecchettin, con un nome giudicato inopportuno e senza un impegno iniziale chiaro. Solo dopo le critiche, Strazzer aveva promesso che il 100% dei ricavi sarebbe stato destinato a un’associazione di Modena impegnata contro la violenza di genere.
L’ultimo scivolone arriva però da un’inchiesta giornalistica delle scorse settimane. Charlotte Matteini – collaboratrice de Il Fatto Quotidiano ed esperta d’inchieste sul mondo del lavoro e dei diritti dei lavoratori – pubblica sul suo sito un articolo dal titolo eloquente: “Che fine ha fatto la ragazza incinta assunta ad Amabile da Martina Strazzer?” [4]. Al centro c’è la vicenda di Sara, ex dipendente diventata popolare sui Social come “la prima donna incinta assunta dal brand”. A novembre 2024 Martina e il profilo TikTok di Amabile avevano celebrato (con molta enfasi) l’assunzione di una contabile al quarto mese di gravidanza, presentandola come una scelta di coraggio e inclusione. Il video diventò virale, raccolse migliaia di consensi e portò perfino a un’intervista lusinghiera su Fortune Italia [5], che consacrò l’approccio innovativo della founder.
Matteini non si fida della narrazione patinata del brand, approfondisce, chiede. Sara aveva un contratto a tempo determinato in scadenza a luglio 2025: non solo non è mai stato trasformato in tempo indeterminato, ma non è stato nemmeno rinnovato (!), diversamente dalle rassicurazioni ricevute direttamente da Strazzer. L’ex dipendente racconta inoltre di aver ricevuto richieste di aggiornamenti quotidiani, scadenze e perfino la partecipazione a riunioni durante il periodo di maternità obbligatoria (pratica di per sé illegale).
Inizialmente, Strazzer tace. La risposta ufficiale dell’azienda arriva con grave ritardo, ben otto giorni dopo la pubblicazione dell’inchiesta, non su TikTok – il canale su cui Amabile ha costruito gran parte del proprio successo – né sul profilo personale di Strazzer, che da sempre è stata volto e portavoce del brand. Il messaggio, diffuso sulla pagina Instagram dell’azienda Amabile, si concentra sulle presunte “gravi mancanze” professionali della lavoratrice, di fatto accusandola pubblicamente di inadeguatezza, senza tuttavia entrare nel merito delle contestazioni. Un testo che lascia la sensazione di un giudizio sommario, con toni freddi e distanti rispetto alla narrazione precedente, ed evidenzia un cambio di rotta nelle modalità comunicative.
L’onda d’urto si misura grazie ai numeri: in un mese Strazzer perde oltre 15 mila follower su Instagram, un’emorragia non tale da mettere in crisi il suo digital body ma comunque significativa, che certifica un palese crollo di fiducia. Soprattutto, i Social si trasformano in un tribunale, e la sua improvvisa sparizione dalle piattaforme alimenta ulteriormente i sospetti. Se i conti di Amabile restano per ora positivi – con un fatturato stimato di sette milioni e mezzo di euro nel 2024, ma bisognerà fare due conti post crisi – è la reputazione della fondatrice ad apparire oggi in pericolo e, indissolubilmente legata ad essa, quella del brand.
Torniamo a noi, e a me che salto come una rana dalla sedia. Tra le molteplici analisi di Social Media Manager, e presunti esperti di gestione della crisi l’algoritmo mi propone il video TikTok di Martina Ricca, Art Director, Social Media Strategist e fondatrice di Mea Agency, realtà specializzata nella consulenza nel digital.
Ricca apre il suo video così: “Vi dirò una cosa sul caso Amabile che non è quello che vorreste sentire. […] Ho letto di tante persone indignate per il fatto che Martina non ci abbia messo il volto in questa comunicazione. Ma vi dico una cosa che appunto non vorreste sentire, cioè che nessun esperto di crisi di comunicazione di un brand avrebbe mai permesso a Martina di mettere la faccia in un comunicato del genere. Questo ve lo dico perché io e la mia socia Alice allo IED abbiamo un corso In cui parliamo anche di crisi di comunicazione. Una delle cose che diciamo sempre a tal proposito è che è una follia pensare di fare un video così per scusarsi o come in questo caso dare delle comunicazioni in una situazione tanto complicata. Nessuno gliela avrebbe consigliato, nessuno. Basti guardare che cosa è capitato a Chiara Ferragni con quel video di scuse, lei si è ancora di più affossata.”
Ebbene, lo sconcerto è forte. Non perché sia scandaloso esprimere opinioni – ci mancherebbe – ma perché per buona parte dei nove minuti di Ricca vengono presentate come dogmi affermazioni che non hanno alcun fondamento né nella letteratura scientifica né nella pratica professionale. E qui la questione non è personale: non conosco Ricca, che sono certa sia un’eccellente professionista nel suo campo; ma quando concetti errati vengono spacciati per verità assolute, chi fa questo mestiere ha il dovere di intervenire.
Il Prof. Luca Poma, stimato collega – nonché crisis manager di alcune delle più eclatanti crisi reputazionali nazionali degli ultimi 20 anni – che ho consultato durante la stesura di questo articolo, ha detto:
“reputation e crisis management stanno alla comunicazione d’impresa come la neurochirurgia di precisione sta alla chirurgia generale. Si tratta di materie specialistiche, sostenute da imponente letteratura scientifica e da un numero enorme di case study. Può essere legittimo discutere sull’ordine delle priorità, ma ribaltare i fondamentali e proporre come modello idee che ricerca e prassi hanno già da tempo smentito clamorosamente, no, non è accettabile. Le affermazioni della Ricca, per come mi sono state riportate, sono completamente destituite di fondamento e sono anzi molto pericolose se spacciate per verità e insegnate in corsi di formazione a giovani studenti e professionisti ad inizio carriera”.
Per anni la nostra professione è rimasta quasi invisibile al grande pubblico: fu anche per questo che, agli inizi della mia carriera accademica e professionale, scrissi proprio con il professor Luca Poma il ponderoso volume Il reputation management spiegato semplice [6], in parte per offrire un manuale aggiornato a studenti e studentesse, in parte – lo confesso – per spiegare a parenti e familiari che lavoro facessi. Poi è arrivato il caso Ferragni, e c’è un prima e un dopo il Pandoro Gate: quella crisi ha reso improvvisamente visibile al grande pubblico una professione che fino ad allora era di nicchia.
E allora proviamo a sezionarla davvero, questa “anatomia della caduta”: dove Amabile ha inciampato, cosa dice la teoria, cosa mostra la pratica, e soprattutto perché la gestione di una crisi non si può mai improvvisare.
Parto dall’unico punto in cui io e Ricca concordiamo. Otto giorni di silenzio sono il sintomo lampante di una grave mancanza organizzativa: la pressoché totale assenza di cultura di prevenzione del rischio. Chi si occupa di crisi conosce bene una regola non scritta, derivata da una battuta di spirito, ma sempre attuale: “la sfiga ci vede benissimo”. In ossequio a quella che un divertente libretto pubblicato da uno scrittore e umorista americano chiamava La legge di Murphy, le crisi reputazionali paiono non scoppiare quasi mai quando il team è al completo e in piena operatività, ma deflagrano il venerdì sera, nei weekend, durante ponti o festività, quando l’attenzione del pubblico si sposta dal lavoro ai feed e il tempo per commentare aumenta. Ovviamente, dal punto di vista scientifico non è così, ma è un dato di fatto che molte crisi aumentano il proprio impatto proprio in estate (ricordiamo il caso Segre–Seimandi, esploso nella settimana di ferragosto ’23, seguito proprio dal Prof. Poma lato Seymandi) o sotto le festività natalizie (Pandoro-gate docet).
Qui la prevenzione, in qualunque azienda un minimo strutturata, avrebbe richiesto almeno i “minimi vitali”: una matrice dei rischi, procedure di escalation rapide, turni di reperibilità (sì, anche in ferie!), un portavoce designato e formato con media training, Q&A e holding statement pronti. Non si tratta di un lusso da multinazionale, ma di strumenti base che anche una realtà giovane dovrebbe approntare.
È evidente che Amabile non abbia saputo sfruttare nemmeno l’indubbio vantaggio che ha avuto grazie al fatto che Charlotte Matteini contattò l’azienda ben prima della pubblicazione dell’inchiesta (altra analogia con il caso Ferragni, l’apertura dell’istruttoria del Garante data 6 mesi circa prima della deflagrazione pubblica della crisi): non un fulmine a ciel sereno quindi, bensì, di una finestra temporale in cui poter predisporre almeno una risposta iniziale. Invece, la scelta è stata di rimanere in silenzio, giustificandosi con il fatto che gran parte del personale era in ferie.
Strazzer si è fatta trovare impreparata al momento dello scoppio – annunciato – della crisi. Un piano di gestione, redatto in tempo di pace, avrebbe consentito di arrivare preparati; una cultura del rischio avrebbe permesso almeno di anticipare il danno con un’operazione di stealing thunder [7] ossia prendere parola per primi e ridurre l’impatto della notizia, governando parzialmente la narrazione. La scelta opposta – restare in silenzio e poi reagire tardivamente – non ha fatto che amplificare il danno reputazionale.
Il ritardo nella gestione della crisi è certamente un moltiplicatore del danno. Premesso che se non prendiamo la parola, altri soggetti interverranno sicuramente al posto nostro (come sostiene il prof. Poma ricollegandosi alla scuola Aristotelica, “in natura il vuoto non esiste, quindi verrà colmato da qualcun’altro”), la framing theory [8] ci spiega che il modo nel quale alle persone viene presentato un certo fatto (la “cornice”, secondo Goffman) ne condizionerà la percezione e i convincimenti che in corso d’opera si verranno a formare da parte dell’opinione pubblica. Le prime versioni degli eventi hanno spesso la forza di ancorare nella mente delle persone percezioni e giudizi: chi per primo interverrà costruendo un “frame”, avrà la chance di decidere quali elementi porre in evidenza e mettere in risalto, e quali, per contro, deliberatemente ignorare. Dunque più si aspetta, più altri fissano cornici e significati, mentre l’organizzazione perde – potenzialmente – la possibilità di guidare la narrazione. Nel caso Amabile, la risposta è arrivata ben otto giorni dopo, e inoltre su un canale percepito come “freddo” rispetto all’habitus comunicativo del brand, in più con un testo piuttosto tecnico che non entrava nel merito delle contestazioni. Il risultato? Dissonanza: il racconto caldo, inclusivo e personale che aveva costruito il brand si è scontrato con una comunicazione distante e impersonale.
Gli effetti del ritardo comunicativo hanno un costo documentato. Il benchmark più celebre resta Cambridge Analytica: lo scandalo esplode il 17 marzo 2018, e Zuckerberg rompe il silenzio solo il 21 marzo. Nel frattempo Facebook brucia quasi 75 miliardi di dollari di capitalizzazione. [9]
Nessun dato ufficiale mostra ancora un impatto diretto sulle vendite o sui bilanci di Amabile, ma la letteratura insegna che segnali come calo di fiducia, sentiment negativo, assenza del portavoce sono spesso il preludio a successive conseguenze economiche ben più concrete, a meno di non spendere risorse per compensarli (il che rappresenta comunque di per sé una perdita).
Uno dei passaggi più controversi del video di Ricca è proprio questo: “nessun esperto di crisi di comunicazione di un brand avrebbe mai permesso a Martina di mettere la faccia in un comunicato del genere”. L’affermazione è perentoria, quasi dogmatica.
Peccato che la letteratura scientifica e la pratica professionale raccontano esattamente il contrario: la Situational Crisis Communication Theory (SCCT) di W. Timothy Coombs [10] dimostra che, soprattutto nei casi di alta responsabilità percepita alta responsabilità percepita (le cosiddette preventable crises), la strategia di risposta più efficace è quella di ricostruzione, fondata su scuse sincere e azioni concrete. In questi scenari, il portavoce ideale è proprio chi ha responsabilità diretta e un legame visibile con il brand. È una questione di accountability: se sei tu il volto della tua azienda, nel momento della crisi non puoi sparire. Questa prospettiva teorica peraltro è stata anche confermata da evidenze empiriche recenti: Lee, Kim e Wertz [11], ad esempio, hanno confrontato l’efficacia delle dichiarazioni di un CEO rispetto a rispetto ai portavoce di rango inferiore durante una crisi: i risultati mostrano che le parole del CEO sono significativamente più efficaci nel diminuire l’attribuzione di responsabilità da parte del pubblico. Ancora, uno studio del 2024 di Beldad e von Rosenstiel [12] ha dimostrato che, in caso di crisi, un messaggio divulgato da un CEO tramite video genera maggiore fiducia e intenzione d’acquisto, nonché livelli inferiori di rabbia, rispetto a uno veicolato da un ufficio stampa o via testo.
Una comunicazione fredda e impersonale, al contrario, accentua la percezione di colpa e genera sfiducia. È proprio ciò che è accaduto nel caso Amabile: la nota su Instagram, senza Strazzer, ha creato dissonanza con anni di narrazione fondata sulla sua presenza.
Perciò no, non è vero che “nessun esperto” avrebbe consigliato di metterci la faccia. Anzi, è vero esattamente l’opposto: quando il volto sei tu, la tua assenza diventa il messaggio più rumoroso. E quel messaggio dice: sto scappando.
Altro che “recitazione” o “poker face clamorosa”. Un altro virgolettato di Ricca recita: “per fare quel tipo di video bisogna essere degli attori nati […] non è una cosa da tutti”, come se l’unica opzione fosse coprire delle bugie o delle situazioni inautentiche con un atteggiamento artefatto e costruito a tavolino. L’opzione di dire la verità in modo schietto e genuino non è prevista? Inoltre qui il punto non è recitare, bensì essere ben preparati. Il media training professionale esiste per questo: simulazioni accurate, gestione delle domande ostili, controllo del linguaggio non verbale. Non è “teatro”: è tecnica.
Pare che dopo la deflagrazione del caso, Martina Strazzer abbia contattato diversi professionisti di brand reputation per tentare di contenere i danni. Una mossa inevitabile, corretta, ancorché tardiva: se chiami i consulenti quando la crisi è già esplosa, il margine di manovra si restringe drasticamente e la strategia possibile è solo reattiva.
Stando a fonti qualificate, Strazzer avrebbe poi deciso di ascoltare i consigli di Sparkle Agency, l’agenzia di talent management con sede a Milano che la segue come influencer. Secondo tali ricostruzioni, gli account di quest’agenzia – che non risulta abbiano alcuna specializzazione in crisis management & communication – le avrebbero suggerito di non presentare scuse pubbliche, e comunque di non presentarle in prima persona, una scelta che apparirebbe in netta controtendenza rispetto alla tutta la letteratura e alla prassi consolidate nel crisis management.
A questo punto, più che proseguire con l’elenco degli errori, può rivelarsi costruttivo illustrare cosa si sarebbe dovuto fare in un’ottica di corretta gestione di corretta gestione di crisi.
Il solvente universale di una crisi reputazionale è innanzitutto la capacità di saper chiedere scusa, un’azione catartica e un gesto di per sé dalla portata straordinaria. L’essere umano, come l’organizzazione che sa farlo, dimostra di aver ‘la schiena dritta’, è in grado di guardare l’interlocutore e la audience negli occhi, capire il perché dei propri errori e impegnarsi a cambiare, affinché quanto è successo non accada mai più. Presentare scuse inoltre non include necessariamente un’assunzione diretta di responsabilità intesa come “colpa”: con le scuse l’azienda dimostra di essere empaticamente dispiaciuta in quanto il proprio brand è “parte dell’equazione” in uno scenario che sta generando dolore o anche solo disagio a qualcuno.
Nel suo secondo video, Ricca afferma che le scuse arrivate a crisi deflagrata non avrebbero avuto senso, in quanto sarebbero parse inautentiche. Nulla nella crisis communication – di nuovo – ci indica interpretazione come corretta, anzi: le scuse, se sincere, funzionano anche se tardive, purché accompagnate da assunzione di responsabilità e da un impegno concreto a migliorarsi e ad evitare il ripresentarsi di problemi simili in futuro.
Molte delle regole che governano il crisis management trovano corrispondenza diretta nelle dinamiche proprie delle scienze sociali: siamo esseri umani, dopotutto. Quante volte vi è capitato di ricevere avvertimenti da persone vicine e, per orgoglio o paura, ignorarli? Poi, quando la vita vi mette di fronte alle conseguenze del vostro errore, arriva lo “schiaffo”, che costringe a prendere coscienza. È lì che ci si sveglia davvero, che si comprende la portata delle proprie azioni, che si prova un senso di desolazione e si sente – a quel punto – la necessità di chiedere scusa.
Le organizzazioni non sono diverse dalle persone: anche loro sbagliano, e anche per loro le scuse sincere hanno un effetto catartico. Le ricerche lo dimostrano con chiarezza: il pubblico è disposto a perdonare un’organizzazione quando questa dimostra consapevolezza, esprime rammarico e accompagna le parole a un impegno concreto di correzione [13]. Studi recenti [14] confermano inoltre che le scuse intensificate – quelle che includono non solo un “ci dispiace”, ma anche un’ammissione di colpa, promessa di riparazione o impegno a non ripetere l’errore – aumentano la percezione di rimorso sincero e, attraverso questa, rafforzano fiducia e intenzione di acquisto da parte del pubblico, che pare dire “posso riprendere a darti fiducia”.
In altre parole, ciò che conta non è solo – pur importante – il momento in cui le scuse arrivano, ma la loro autenticità e il legame di esse con azioni tangibili. È questo a fare la differenza tra un gesto percepito come mera “tattica” e un atto riconosciuto come segnale credibile di matura responsabilità.
Un passaggio obbligato sarebbe stato anche quello di analizzare l’anatomia dell’errore: che cosa non ha funzionato, dove si è inceppata la macchina, come evitare che accada di nuovo. Dirlo pubblicamente, senza giri di parole. La letteratura sull’Organizational learning from crises in tal senso è univoca: ammettere le criticità accelera il recupero reputazionale e rafforza la percezione di competenza [15]. Qui invece si è scelta la via della rimozione, che ha prodotto l’effetto opposto: moltiplicare i sospetti.
Piuttosto che trincerarsi nel silenzio, avrebbe avuto senso immaginare un dialogo aperto e trasparente con Charlotte Matteini, la giornalista che ha portato in emersione la vicenda. Ammettere la complessità del caso, spiegare le proprie scelte, dimostrare apertura. Accuse gravi, come il fatto che la dipendente Sara abbia dovuto lavorare durante il congedo di maternità, e anche molte altre domande poste dalla giornalista, sono rimaste senza risposta, anche dopo l’intervento pubblico – tardivo – dell’azienda, alimentando così gli interrogativi collettivi. Si sarebbe potuto, anzi, valorizzare l’expertise della giornalista coinvolgendola anche in un processo di assessment interno, dimostrando quindi di non aver nulla da nascondere.
La community è stata il vero asset del brand. Analizzando il sentiment online emerge una community coesa, spesso pronta a difendere Amabile e la sua integrità. Se quindi il grande pubblico si è mostrato scettico, la fanbase è rimasta in larga parte dalla parte di Strazzer, riconoscendo il lavoro positivo svolto in questi anni e attendendo però una risposta convincente. Amabile ha costruito il proprio capitale simbolico sulla narrazione condivisa, sui video di quotidianità, sul linguaggio diretto della Gen Z. Nel momento della crisi, tuttavia, quella stessa community è stata lasciata sola, senza una voce riconoscibile. Qui sta la vera frattura: se fai della prossimità il tuo DNA, non puoi sparire proprio quando dovresti esserci.
Ogni crisi può e deve diventare un’occasione di sviluppo e miglioramento per la cultura aziendale. È il momento in cui un’organizzazione è chiamata a guardarsi dentro, a mettersi davanti allo specchio e a interrogarsi su ciò che non ha funzionato. Le aziende non sono entità astratte: sono fatte di persone, e le persone sono fallibili. Per di più Amabile è una realtà giovane, in evoluzione. L’errore è inevitabile, ma ciò che fa la differenza è la capacità di riconoscerlo e gestirlo, lavorando in modo sistematico e proattivo sul miglioramento. Crisi come quella di Amabile, per quanto dolorose, possono trasformarsi in un booster culturale: una spinta potente per rivedere valori, processi, meccanismi organizzativi e pratiche quotidiane. Attualmente, la leadership dell’azienda non pare aver colto quest’opportunità, o quanto meno non ha rendicontato di averlo fatto.
Il caso Amabile pare non concludersi qui, anzi, sembra destinato ad aprirsi un vero e proprio “capitolo due”. La giornalista Charlotte Matteini, nella seconda parte della sua inchiesta, ha infatti riacceso i riflettori sulla vicenda della collezione benefica Amore Dannoso.
Secondo quanto riportato, la promessa di devolvere il 100% dei ricavi a un’associazione modenese impegnata contro la violenza di genere non sarebbe ancora stata accompagnata da dati verificabili. Matteini ha preannunciato un esposto all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), esposto che – come per il caso Ferragni – potrebbe aprire un nuovo fronte di criticità per l’azienda, anche legale. Se la prima crisi ha minato la fiducia nella dimensione interna (il rapporto con le persone che lavorano in Amabile), questa seconda rischia di spostare l’attenzione sull’integrità esterna e la conformità alle norme di legge.
È un passaggio che conferma una regola basilare della crisis communication: una crisi non si esaurisce necessariamente con l’emissione di un comunicato stampa o con il calo dell’attenzione mediatica, ma può riattivarsi ogni volta che emergono incoerenze tra dichiarazioni e realtà.
È anche un promemoria del perché servano competenze solide e approcci strutturati: la reputazione non è mai un “tema di costume”, ma un ambito complesso che intreccia molteplici dimensioni comunicative e organizzative. In questo senso, più che puntare il dito, può essere utile cogliere l’occasione per ribadire quanto il caso Amabile – come molti altri prima di esso – dimostri l’urgenza dell’affermarsi di una cultura manageriale capace di affrontare le crisi non come imprevisti, ma come tappe inevitabili di un percorso di crescita.
In conclusione, ironia a parte, sono quasi grata a questa improvvisa stagione che ha visto fiorire di esperti occasionali di gestione della reputazione: hanno reso un argomento tecnico un poco più pop, e l’hanno trasformato in un tema da feed, costringendo tutti a parlarne. E va bene così: il dibattito è utile, stimola, incuriosisce. E se questo articolo ha un obiettivo, non è certo quello di “zittire” nessuno, bensì quello di offrire stimoli di riflessione e strumenti di analisi, di fare chiarezza, di arricchire la cultura comune su una materia che è molto più affascinante – e molto più complessa – di quanto possa sembrare a prima vista.
[1] Kruger & Dunning, 1999
[2] Eagly & Karau, 2002; Rudman & Phelan, 2008
[3] Repubblica, 2023
[4] Matteini, Substack, 12 agosto 2025
[5] Sità, Fortune Italia, 10 dicembre 2024
[6] Poma, Grandoni, 2021
[7] Arpan & Roskos-Ewoldsen, 2005
[8] Erving Goffman, 1974
[9] The Guardian, 2018 https://www.theguardian.com/technology/2018/mar/21/mark-zuckerberg-response-facebook-cambridge-analytica;
The Guardian, 2018: https://www.theguardian.com/technology/2018/mar/24/facebook-week-of-shame-data-breach-observer-revelations-zuckerberg-silence
[10] Claeys, Cauberghe & Vyncke, 2010; Coombs, 2007; Coombs & Holladay, 2012
[11] Lee, Kim & Wertz, 2014
[12] Beldad & von Rosenstiel, 2024
[13] Lee & Chung, 2012; Haigh, Brubaker & Whiteside, 2015
[14] Georgiadou, 2023
[15] Bundy et al., 2017