Ci risiamo: avidità, arroganza, supponenza, incompetenza e tradimento delle aspettative di azionisti e cittadini. Risultato: l’assenza di etica nel business ha causato un ennesimo disastro economico-finanziario.
Maxi multa per Johnson & Johnson
“Multa da 572 milioni per Johnson & Johnson: la casa farmaceutica è responsabile dell’epidemia di oppioidi”, titolano i principali quotidiani internazionali, dopo che pochi giorni fa Thad Balkman, un Magistrato del distretto Cleveland County, ha emesso la prima pesante sentenza contro la multinazionale del New Jersey, condannandola a oltre mezzo miliardo di dollari di risarcimenti.
In secondo piano, purtroppo, scivola il fatto che l’utilizzo spregiudicato di farmaci anti-dolorifici in USA – indotto dalle aggressive e scriteriate campagne di marketing del settore pharma, mercato che qualcuno sostiene debba essere lasciato libero di auto-regolarsi (!) – abbia ucciso negli ultimi 20 anni oltre 500.000 di americani e rovinato altrettante famiglie, creando dolore e disperazione in nome del profitto esasperato.
Il Procuratore Balkman ha definito l’abuso di oppioidi come “la più grande crisi sanitaria mai affrontata in USA, nonché la quinta causa di morte tra gli americani, addirittura più comune degli incidenti stradali”; J&J è la prima produttrice degli ingredienti alla base dei farmaci oppioidi, non solo per i due blockbuster che vende – il Duragesic e il Nucynta – ma perché rifornisce anche i suoi competitor di circa il 60 per cento degli ingredienti contenuti in quei potenti antidolorifici.
Subdoli, disonesti e cinici, a fini di lucro
La condanna conferma che la multinazionale avrebbe “messo in piedi una macchina di marketing iper-aggressivo, divulgando notizie parziali e inducendo la filiera medico-paziente a utilizzare gli oppioidi, ignorando deliberatamente Il rischio dipendenza”. Hunter nell’ultima arringa di fine luglio ha aggiunto: “Quello che è veramente senza precedenti è notare come gli imputati si siano impegnati in uno schema subdolo, disonesto e cinico per creare surrettiziamente il bisogno di oppioidi tra la popolazione”. La difesa dell’azienda ha freddamente e squallidamente risposto che “in fin dei conti i medici stessi erano consapevoli dei rischi…”.
Per ironia, il titolo in borsa di J&J è salito, subito dopo la pubblicazione della notizia, perché la multa è stata assai più bassa di quella inizialmente richiesta dal Procuratore, che aveva richiesto una sanzione da 17 miliardi di dollari.
Tuttavia, pare non essere finita qui, e non solo perché sarebbero in arrivo 2.000 nuove cause legali contro J&J, ma perché – in uno scenario degno dell’avvincente romanzo “Il re dei torti” di John Grisham – molte nuove class-action si stanno attivando: il conto per “big-pharma” potrebbe presto salire, secondo le stime di Berenberg Capital Markets, fino a 100 miliardi di dollari, mentre per altri analisti finanziari di Wall Street le condanne potrebbero superare la cifra monstre di 150 miliardi, dal momento che 45 stati e migliaia di municipalità stanno intentando causa contro oltre 22 aziende farmaceutiche.
Il banco degli imputati si allarga
Secondo quanto riportato in queste ore dai quotidiani USA, i contenziosi oltre a J&J riguarderebbero Purdue Farma, Mallinckrodt, Teva Pharmaceutical – che ha già pagato oltre 80 milioni di risarcimenti – Endo International, Allergan e Insys Therapeutics; il fondatore di Insys è stato condannato con l’accusa di avere pagato tangenti ai medici per aumentare le vendite di oppioidi, e la società è stata multata con 225 milioni, mentre Purdue Farma, azienda che produce l’OxiContin, tra i farmaci sotto accusa per essere causa dei decessi, ha saggiamente offerto una somma tra 10 e 12 miliardi per chiudere tutti i contenziosi prima del processo, per poi ricorrere al “Chapter 11” della legge fallimentare USA, andando in bancarotta e avviando una successiva ristrutturazione per riuscire a pagare la somma miliardaria e cercare di riparare ai danni causati dalle proprie dissennate politiche di marketing.
In ogni caso, il prossimo processo, dopo quello di J&J, partirà in Ohio tra meno di 60 giorni, e vedrà sul banco degli imputati tutti i produttori USA di oppiacei: considerando che – secondo l’Agenzia federale per il controllo e la prevenzione delle malattie – il costo della crisi degli oppioidi per l’economia americana, calcolando il peso sul sistema sanitario, i costi sociali, la perdita di produttività e i costi per il sistema giudiziario, sfiora gli 80 miliardi all’anno, il contenzioso giudiziario non si preannuncia certo come una passeggiata per le multinazionali del farmaco. Nel mentre, a complicare le cose, anche la politica ha fatto il suo ingresso “con i mezzi pesanti” su questo già precario scenario: il Presidente Donald Trump che ha dichiarato l’abuso di farmaci oppiacei “un’emergenza sanitaria nazionale”, e ha raddoppiato il budget annuale per contrastarne la diffusione a oltre 7 miliardi di dollari l’anno.
Business is business
Ma non di soli oppiacei soffre la reputazione di Big Pharma: anche Novartis, Eli Llly, Glaxo, Shire, Gilead paiono anche loro in varia misura coinvolte in qualcosa di simile ai “disturbi dissociativi d’identità”, dal momento che sui loro bilanci sociali si fa un gran parlare di parole chiavi quali “solidarietà”, “salute”, “attenzione alle fasce deboli”, “mission al servizio della collettività”, keyword poi tradite dai loro quotidiani e concreti comportamenti.
Ad esempio, il redditizio business della produzione e vendita di psicofarmaci per bambini, genera profitti per oltre 20 miliardi di dollari di incassi all’anno, grazie a politiche di marketing aggressive e di disease mongering, tali da “stimolare il bisogno” della terapia, ovviamente a base di farmaci. Ma anche questa strategia di business è costata cara, come dimostra il caso Paxil, antidepressivo blockbuster della multinazionale pharma Glaxo: venne poi fuori a distanza di anni – con l’azienda tutt’altro che collaborativa con la Magistratura – che il famigerato “Studio 329”, sul quale era stata basato l’ottenimento dell’autorizzazione alla messa in commercio del farmaco, era stato manipolato nella sua essenza, non senza l’aiuto di “ghostwriter” pagati dalla multinazionale stessa, adattando lo studio ai risultati desiderati dall’azienda. Glaxo, dopo un estenuante battaglia legale – promossa forse dall’azienda per rivendicare il proprio diritto a stimolare idee suicidarie nei giovani pazienti, bambini e adolescenti, al fine di fare più soldi – pagò la più alta multa mai comminata a una farmaceutica, oltre 3 miliardi di dollari, con buona pace dei familiari dei malati poi deceduti che, sulla base delle evidenze scientifiche disponibili, avevano optato per una strategia terapeutica a base di Paroxetina.
In India, Medici Senza Frontiere denuncia che le più grandi aziende del comparto farmaceutico e le associazioni di medici e pazienti sono schierati da anni su fronti contrapposti – benché le multinazionali del pharma dichiarino sempre di essere “dalla parte di medici e pazienti” – in quanto la legge indiana permette di rifiutare alle grandi aziende le richieste di esclusive di brevetto per quei farmaci che non presentano “caratteristiche di forte innovazione e unicità”. Le aziende farmaceutiche amano infatti “manipolare” i brevetti cambiando appena due virgole per dare ulteriori 20 anni di vita a galline dalle uova d’oro che diversamente finirebbe sul mercato libere da brevetti e a disposizione di tutti. In India le piccole aziende locali fabbricanti di farmaci generici – medicinali i cui brevetti sono scaduti, e che quindi costa molto meno produrre, non dovendo pagare stratosferici diritti a nessuno – lavorano alacremente per mettere medicine a disposizione di pazienti di fasce povere della società a prezzi 10, 20 a volte 50 volte inferiori a quelli delle grandi case produttrici. Silvia Mancini, di Medici senza frontiere, ha denunciato: “Presto probabilmente non potremo più disporre di medicine a basso costo da distribuire nelle zone più povere del mondo”, con buona pace di chi verrà semplicemente condannato a morte da questa scelta di business, e le cui storie probabilmente non troveranno spazio sui patinati bilanci sociali delle grandi multinazionali farmaceutiche in questione, per altri versi molto attente allo Storytelling.
Farmaci o vendite online, per me pari sono
Ma la malattia dello shortermismo, come il Prof. Stefano Zamagni ha definito l’incapacità dei manager di costruire valore nel medio-lungo termine, non colpisce solo il comparto farmaceutico. Tempo fa, un’eclatante inchiesta del New York Times mise a fuoco il tema degli impiegati usa e getta nel colosso delle vendite online, Amazon: ritmi di lavoro estenuanti, capi ufficio che penalizzano gli impiegati che non rispondono alle email di lavoro durante la notte o nei giorni di ferie, un sistema informatico che permette di fare delazioni anonime a danni dei colleghi, dipendenti malati di cancro a rischio licenziamento in quanto “le difficoltà della vita privata non devono interferire con le prestazioni lavorative”, o donne vittime di aborto spontaneo mandate in viaggio di lavoro il giorno dopo l’intervento con note del tipo “se hai tutta quest’intenzione di metter su famiglia, come sembra, sappi che questo non è il posto giusto per te”. L’elenco delle vessazioni in Amazon è lungo pagine e pagine, e tutto ciò fa a pugni con le roboanti dichiarazioni di intenti pubblicate online dall’azienda sui documenti di rendicontazione sociale, tanto che l’amministratore delegato Jeff Bezos – che ogni anno secondo la Harvard Business Review si contende con il CEO della Apple il primo posto come CEO più performante nel mondo – ha dichiarato al New York Times, “Questa non è l’Amazon che conosco”. Eppure le due realtà paiono convivere in perfetto stile Giano bifronte: un’azienda apparentemente attenta al rispetto dei diritti dei dipendenti e al clima di lavoro interno, e nel contempo la stessa azienda bulimicamente proiettata verso un modello di business che prevede guadagni, sempre più guadagni, a qualunque costo.
British Petroleum, Volkswagen, Deutsche Bank ed ENEL
Per non parlare di British Petroleum, la società petrolifera “green” i cui impianti hanno causato danni ambientali irreparabili nel Golfo del Messico, per i quali è stata condannata a 18,7 miliardi di dollari di multa; o della grande banca tedesca “attenta alle persone”, Deutsche Bank, che poi vende obbligazioni tossiche e derivati per decine di miliardi di Euro, rovinando centinaia di migliaia di risparmiatori e lasciando a casa 20.000 dipendenti per tentare di sanare una crisi causata dalle scelte improvvide del suo stesso management; o ancora Volkswagen, costretta a rivedere bruscamente le sue policy di responsabilità sociale in occasione del Dieselgate, anche a seguito delle decine di miliardi di euro persi in borsa proprio a causa delle menzogne raccontate al mercato e ai propri clienti, truffati biecamente circa le emissioni nocive in atmosfera prodotte dalle autovetture del colosso tedesco dell’automotive, che per due anni ha taciuto consapevolmente i fatti, dei quali era al corrente, fino allo scoppio dello scandalo.
D’altra parte, anche un colosso nostrano come ENEL ha qualcosa da dire circa l’inserimento di preoccupazioni di carattere etico nel business, al fine di costruire valore nel medio-lungo termine. Ne troviamo conferma dalle parole di Francesco Starace, amministratore delegato della nostra azienda elettrica nazionale, che ha illustrato il suo pensiero durante un incontro tenuto a Roma qualche tempo fa con gli studenti dell’Università LUISS, dove ha spiegato come “generare cambiamento nelle aziende”. In risposta all’innocente domanda di uno studente, che chiedeva “quanto contano i propri collaboratori, e quali sono gli ingredienti di successo per un cambiamento”, Starace ha risposto: “È facile. Alla gente non piace soffrire. Per spingere all’obbedienza e al cambiamento i sottoposti è necessario distruggere chi ha idee diverse da quelle del leader. Per farlo ci sono alcune cose abbastanza semplici da fare: innanzitutto ci vuole un gruppo di persone fedeli all’idea del capo; successivamente, si devono distruggere fisicamente i centri di potere che all’interno di un’azienda si oppongono al volere del leader, inserendo persone fedeli all’interno dei gangli dell’organizzazione dove lavorano coloro che hanno idee diverse (…), e creando malessere. Appena questo malessere diventa sufficientemente manifesto, si colpiscono le persone opposte al cambiamento nel modo più plateale e manifesto possibile, in modo da ispirare paura agli altri”. Chissà da quale capitolo dei manuali sul rispetto della diversità e della dignità dei dipendenti l’illuminato manager ha tratto questi illuminanti principi ispiratori.
Coerenza vs. marketing
C’è da chiedersi allora quanto spazio separa la verità dalla finzione: quanto è sottile la patina di smalto verde che le aziende si danno compulsivamente per apparire più eco e trendy agli occhi del mondo, al solo fine di orientare in modo più profittevole i comportamenti di acquisto dei cittadini? Quanto è fragile e traballante l’impalcatura di bugie della quale si circondano? Quanto è ampio il solco tra l’unità interna che si occupa di politiche sociali, di sostenibilità e di rendicontazione ambientale, e il top management che poi prende realmente le decisioni strategiche? E ancora: che ruolo hanno i “complici” di questi “delitti”, ovvero i consulenti, i comunicatori e i relatori pubblici, i Mandrake dei nostri giorni, che truccano le carte “migliorando il percepito”, e aiutando le grandi aziende nella loro opera di lifting”, chiudendo tutti gli occhi possibili in nome della pubblicità, del marketing e del business?
“Solidarietà”, “salute”, “attenzione alle fasce deboli”, “mission al servizio della collettività”: a leggere cosa raccontano di sé sui propri siti web e nei bilanci di sostenibilità, tutte queste multinazionali – e molte altre – sono “straordinarie”, con un clima interno di lavoro piacevole e orientate al bene della comunità. A leggere di queste vicende, invece, viene da chiedersi quante di queste “parole chiave” hanno poi un concreto riscontro nelle loro attività quotidiane: e dire che il valore della coerenza è notoriamente uno dei pilastri della buona reputazione, capace da sola di orientare positivamente i comportamenti di acquisto, e aumentando quindi vendite ed utili.
Non sono passati neppure 15 giorni, mentre scrivo, da quando duecento tra le più grandi aziende americane hanno pubblicato un documento in cui sconfessano il mantra “prima gli azionisti” che per anni ha guidato le politiche societarie; per creare valore bisogna guardare anche all’impatto ecologico, al rispetto dei clienti e alle condizioni dignitose offerte ai dipendenti, dicono i CEO di tutte queste multinazionali USA. Le scelte spregiudicate non sono più un vantaggio, ma si stanno trasformando in elementi negativi e a lungo andare danneggiano il business, dicono le aziende, mentre il dibattito – iniziato a livello di fondi etici e finanza sostenibile – si allarga anche agli investitori più tradizionali: “le aziende devono proteggere l’ambiente e trattare i dipendenti con dignità e rispetto”, si legge nel documento per come lo ha riportato il Financial Times.
E dire che l’Università di Harvard ha – già da anni, inascoltata – messo la pietra tombale sulla presunta alternativa “etica versus profitto”, spiegando e documentando scientificamente che la sola introduzione di preoccupazioni etiche nel business a livello strategico incrementa il valore medio della capitalizzazione di borsa delle aziende del 25 per cento.
Etica nel business: le aziende moderne come Giano Bifronte
Concludo con una riflessione: Giano bifronte era un’antica e importante divinità romana, rappresentata con una testa bicefala: era il protettore di tutto ciò che concerne “una fine e un nuovo inizio”, ma – sicuramente a causa delle sue “due facce” – nella cultura popolare iniziò presto a essere simbolo di doppiezza, “di una cosa del suo opposto”.
Ho citato i Disturbi dissociativi dell’identità, o disturbi da personalità multipla, fenomeni di forte disagio la cui caratteristica essenziale, seconda la psichiatria, è la presenza di due o più distinte identità o stati di personalità che in modo ricorrente assumono il controllo del comportamento dell’individuo, con incapacità di ricordare notizie importanti troppo estesa per essere spiegata con una banale tendenza alla dimenticanza, e con pensieri ed emozioni della cosiddetta “personalità secondaria” che risultano assai differenti da quelli da quelli della “personalità principale”.
Ebbene, le aziende sono gruppi umani organizzati per raggiungere uno scopo comune; probabilmente ne riflettono in qualche modo le patologie, il che riporterebbe di stringente attualità le straordinarie intuizioni di Adriano Olivetti, grande estimatore dello psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung, al punto da creare con lo psicologo Cesare Musatti già negli anni Sessanta uno dei primi e più importanti gruppi di ricerca di psicologia del lavoro in Italia, che aveva come centro di sperimentazione proprio la grande fabbrica Olivetti di allora.
Ma questi ragionamenti non toccano evidentemente i manager, lanzichenecchi del XXI secolo, pagati solo per generare profitti immediati “a qualunque costo”, con contratti di breve termine, e interessati a gonfiare quanto più possibile i numeri, dal momento che da essi dipendono i loro benefit; chiusa un’avventura aziendale, e incassato il “golden parachute”, ci si fa assumere da un’altra parte, e pazienza se ci si lascia dietro una scia di macerie.
Il problema nel prossimo futuro sarà quindi capire come mettere le multinazionali “sul lettino”: c’è da chiedersi quante accetteranno di farlo spontaneamente, prima che si renda necessario un “Trattamento sanitario obbligatorio” con camicia di forza, stante la distruzione – in termini di valore di borsa, e non solo – che i loro dissennati comportamenti continuano a causare all’intero Pianeta.
Edit, 04/09/2019 h. 17.02