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Lo scorso maggio è stato un mese di fuoco per l’andamento in borsa – negativo, in questo caso – dei colossi del comparto pharma: l’annuncio con il quale Joe Biden informava i mass-media e i mercati del possibile libero accesso ai brevetti sui vaccini per il Covid-19 di Pfitzer, Johnson&Johnson e Moderna, per la parte di proprietà intellettuale registrata in USA, scatenò una specie di terremoto.

Liberalizzare i brevetti sui vaccini? Le risposte di Big Pharma

La Federazione Nazionale del Pharma USA ha sparato a zero contro il Presidente, sostenendo pragmaticamente che “rimuovere la protezione brevettuale non farà di per sé aumentare la produzione di vaccini”. Il numero uno di Pfitzer, l’intrigante veterinario di origine greca dalla folgorante carriera, che nel 2020 ha chiuso l’accordo per la ricerca sui vaccini Covid con la partner BioNTech con una stretta di mano su Zoom, come ha raccontato lui stesso in un’interessante intervista – ha rincarato la dose: “Il modo migliore per garantire un accesso equo ai vaccini è tramite un dialogo con il settore privato, mentre questa iniziativa della Casa Bianca ha ragioni solo politiche e non aiuterà a contrastare l’emergenza sanitaria” (le ragioni politiche alle quali fa riferimento sono la necessità per Washington di blandire i Paesi in via di sviluppo, tagliati fuori dalle grandi campagne vaccinali a causa dei costi dei vaccini, nonché – per lo stesso motivo – l’India, universo inqueto da oltre 1 miliardo di potenziali pazienti, ndr).

Al di là degli eventuali esiti concreti di questa proposta del Presidente Biden, che allo stato attuale resta poco più di una provocazione (non è nota alcuna successiva iniziativa legislativa a riguardo, e l’incontro al Vertice mondiale della salute di Roma del 21 maggio scorso si è concluso su questo punto con un nulla di fatto), è interessante spendere qualche parola per analizzare l’argomento dal punto di vista della reputazione delle aziende Big-Pharma.

Covid-19 e vaccini: un dibattito aperto

In un recente articolo avevo con onestà intellettuale lodato lo sforzo dei grandi colossi farmaceutici nel portare a termine quella che si è rivelata una vera e propria impegnativa corsa – dagli esiti non scontati – verso il traguardo dell’approvazione a tempo record di un vaccino contro il SARS-CoV-2 (quattro quelli approvati in Europa, ma – oltre al vaccino cinese Sinovac e quello russo Sputnink – altre decine sono in fase di sperimentazione in tutto il mondo, e – considerata la mole di richiami che ci aspetta – il business è certamente ghiotto). Interessante ricordare che un collega, al quale ero legato da una relazione di amicizia intensa e che durava con reciproca grande soddisfazione da oltre dieci anni, mi ha tolto definitivamente il saluto a causa del “crimine” commesso dal sottoscritto – da sempre schierato criticamente verso molte operazioni di business spregiudicato delle farmaceutiche – nel lodare l’impegno di queste aziende (for profit, ovviamente, non sono degli enti benefici) nella ricerca scientifica in occasione di questa emergenza pandemica: si sa, le tesi, quali che siano, sono gradite solo fintantoché sono in linea con i nostri bias cognitivi, e – stante l’approccio ideologico di molti – è spesso considerato inopportuno criticare un’azienda a ragion veduta e nel contempo lodarla, le volte che fa qualcosa di sensato.

Tornando al focus della nostra analisi, Big Pharma – conscia del possibile rischio reputazionale – tentò nei mesi precedenti di prevenire l’attacco, in vari modi: Moderna, ad esempio, a dicembre scorso ha formalmente garantito che per tutto il periodo dell’emergenza pandemica non avrebbe intrapreso alcuna azione legale a tutela dei propri brevetti in caso di “copie generiche” degli stessi, mentre AstraZeneca e J&J hanno avviato la vendita del prodotto a prezzo di costo, e nel complesso le farmaceutiche coinvolte hanno sottoscritto circa 200 accordi di sub-licenza garantendo accesso alle formule brevettate e al relativo know-how ad aziende potenzialmente loro concorrenti, così da agevolare un aumento significativo della produzione dei vaccini, specie a vantaggio dei Paesi più poveri.

Tutto ciò non è bastato: l’annuncio del Presidente USA ha scatenato un crollo di oltre 20 miliardi in un solo giorno dei titoli Biontech, Moderna, Novavax, Pfitzer, coinvolgendo a ruota tutte le altre farmaceutiche impegnate nella corsa contro il virus.

I motivi saranno anche stati solo politici, ma i numeri parlano chiaro: dei 3,2 miliardi di dosi somministrate nel pianeta, la grande maggioranza è andata ai Paesi con reddito alto e medio, e solo l’1% è stata destinata ai Paesi poveri, nonostante in molti di essi la pandemia stia impazzando, con picchi di contagio mai visti nella prima fase della pandemia nel 2020. Considerando la forte interrelazione tra tutti i territori del mondo e la facilità di veicolazione del virus, che ha il brutto vizio e la maleducazione di non rispettare le barriere doganali, il tema è di assoluta attualità anche per l’intero mondo occidentale.

Il percorso dell’ipotesi di liberalizzazione – anche solo temporanea – della proprietà intellettuale relativa ai vaccini Covid è tuttavia assai accidentato: difficile sia percorribile in tempi brevi una modifica dei Trattati WTO che la renderebbero possibile, ancor più se consideriamo che il sostegno alla proposta – anche grazie alle pressioni delle abili agenzie di lobbies al servizio di Big Pharma – non è certamente unanime da parte di tutti i Paesi. Il tema tornerà tuttavia ad essere discusso in occasione della prossima pandemia, dal momento che quella generata dal SARS-CoV-2 non sarà certamente l’ultima ad affliggerci.

Le grandi aziende farmaceutiche hanno solo eventualmente rimandato il problema, strette come sono tra la contraddizione generata dal disallineamento tra l’evidenza dei fatti (aziende i cui sforzi nella ricerca hanno aumentato – e di molto – l’aspettativa di vita di tutti noi, “dettaglio” che i complottisti tendono sempre a dimenticare o sottostimare), la narrazione eccessivamente enfatica e poco genuina che tentano di costruire nei loro bilanci sociali e report integrati (aziende che salvano il mondo per sincera dedizione al benessere del genere umano, sic) e le problematiche giudiziarie da sempre sotto gli occhi di tutti (disease mongering, ovvero variazione dei criteri diagnostici di una malattia per vendere più farmaci, tecnica di marketing ampiamente documentata in letteratura, ma anche corruzione vera e propria, e occultamento doloso di studi scientifici che dimostravano che alcuni loro prodotti farmaceutici blockbuster erano non solo inutili ma anche pericolosi per la salute umana).

Sotto il profilo reputazionale, pare insomma che l’industria farmaceutica si sia davvero impegnata, negli ultimi decenni, per pregiudicare il valore dei propri stessi brand, incrinando sistematicamente il rapporto di fiducia con i pazienti e la cittadinanza in generale, tanto che a seguito di questi deprecabili comportamenti la quasi totalità delle aziende farmaceutiche multinazionali è stata negli anni oggetto di contestazioni e a volte di sanzioni assai elevate, in alcuni casi vere e proprie multe monstre da miliardi di dollari.

Un giro di smalto ai propri marchi l’avevano dato con i brillanti risultati – dei quali tutti stiamo godendo – derivanti dalla messa a punto e approvazione a tempo record dei vaccini contro il Covid, per poi scivolare di nuovo sullo sdrucciolevole terreno della reputazione con l’alzata di scudi dinnanzi alla proposta di liberalizzare i brevetti avanzata da Biden, contrarietà tanto comprensibile tecnicamente quanto difficilmente spiegabile alla popolazione. La sensazione è che, nonostante tutto, questi giganteschi colossi siano arrivati piuttosto impreparati allo tsunami della polemica sui mass-media, ad ulteriore dimostrazione – come dico e scrivo da sempre – che il dimensionamento in termini di fatturato non è quasi mai di per sé automaticamente sintomo di efficienza, dal punto di vista del crisis management e della crisis communication, ovvero della capacità di governo delle crisi reputazionali.

Si potrà obiettare che il caso dell’India tende a confermare la linea narrativa di Big Pharma: nonostante la concessione a titolo completamente gratuito – da parte dell’azienda stessa – della licenza sul brevetto Moderna al governo di New Delhi, agli inizi di giugno solo il 3% della popolazione era stata vaccinata (la campagna ha tuttavia subito una forte accellerazione a metà giugno, con 8 milioni di dosi somministrate al giorno, ndr), a riprova che le problematiche non ruotano tanto attorno alla disponibilità delle formule per il vaccino quanto più alle inefficienze interne e alla burocrazia notoriamente incompetente e corrotta di quel Paese.

Vaccini e brevetti: la parola all’esperto

Inoltre, le farmaceutiche hanno dalla loro un argomento più forte di altri: se gli Stati desiderano formule Patent free, investano essi stessi decine di miliardi di dollari in ricerca, e si creino loro proprietà intellettuali pubblicamente disponibili. Crudo, scontroso e cinico, come statement, ma denso di una certa logica.

Più sobrio ma non meno schietto è stato Fabrizio Jacobacci, avvocato a capo dell’impero italiano della protezione intellettuale, tra i primi 3 gruppi del genere in Europa, che da me interpellato ha dichiarato:

“Il brevetto di per sé non rende indisponibile il prodotto e qualora così fosse, esistono dei rimedi legali che gli Stati potrebbero esperire per superare l’indisponibilità del prodotto, se essa fosse causata dall’esistenza di un brevetto. Questa tuttavia è una decisione politica, non tecnica. Da sempre l’intervallo temporale più o meno ampio tra scoperta di un farmaco, compreso un vaccino, e il suo rilascio per la somministrazione al pubblico è la conseguenza dei molti test e sperimentazioni che devono essere fatti allo scopo – giustamente – di tutelare la salute pubblica. Inoltre, la produzione di farmaci sofisticati come i vaccini per il Covid-19 non sono alla portata di tutti i produttori di farmaci: la domanda di vaccini determinata dalla pandemia è di carattere esplosivo, capace di mettere in crisi molti sistemi produttivi, non tarati sulla fabbricazione di centinaia di milioni di dosi in poco tempo. A queste complessità, si aggiunge il fatto che nel caso di un vaccino somministrato durante un’epidemia, la domanda è caratterizzata da un picco seguito da una rapida flessione: chi vende un vaccino – e le aziende, al netto delle ipocrisie, esistono per vendere prodotti e servizi – sa che deve sfruttare il picco, perché una volta superata la crisi, la domanda inevitabilmente viene meno”.

Tutto assai ragionevole, ma si sa – come spiego nel dettaglio nel mio ultimo volume, dal titolo Il reputation management spiegato semplice – la buona o cattiva reputazione è determinata, oltre a ciò che si fa, anche da come si è percepiti dai vari stakeholder. E lavorare sul proprio profilo reputazionale equivale a creare valore e guadagnare più denaro: il Reputation Institute americano stima che, in media, una variazione di 1 punto nell’indice reputazionale dell’azienda (misurato dal loro indice RepTrak) vale un incremento di circa il 2,6% del valore di mercato dell’azienda stessa.

Per i colossi di big-pharma, tuttavia, la strada della buona reputazione, in termini di percezione da parte del grande pubblico – pare essere sempre, invariabilmente e nonostante tutto, in salita.

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