image_pdfVersione PDFimage_printStampa

Ci risiamo, ne avevo già parlato precedentemente nella mia analisi dal titolo “Fake Reputation”, ma quanto pare il malcostume professionale è destinato non solo a non venir abbandonato, ma anzi a intensificarsi: un’inchiesta del consorzio giornalistico Forbidden Stories, ripresa su un articolo del settimanale tedesco Die Zeit a firma di Holger Stark e Fritz Zimmermann, conferma – tra le altre cose – la tendenza crescente alla manipolazione della reputazione.

Qual è il bene tutelato?

Secondo un’indagine di Weber Shandwick dal titolo ‘The State of Corporate Reputation’, il 63% del valore di mercato di un’organizzazione è attribuibile alla sua reputazione: la letteratura oggi ci suggerisce quanto, senza ombra di dubbio, la reputazione abbia un impatto diretto sul valore di qualunque azienda o personaggio, toccando un insieme di fattori come identità, immagine, notorietà e riconoscibilità, che influiscono sugli stakeholder e sul valore percepito dai cittadini.

Uno dei pilastri ai quali prestare maggiore attenzione è quello dell’autenticità, aspetto di fondamentale importanza che pare ancor oggi sottostimato da un numero di organizzazioni insospettabilmente alto su scala globale, e senza la quale è impossibile costruire fiducia e mantenere un adeguato grado di allineamento e coerenza tra identità dell’organizzazione e l’immagine comunicata all’esterno.

Il punto è che nel XXI secolo poter contare su una buona reputazione significa poter guadagnare (molti) più soldi. Il Reputation Institute USA stima che, in media, una variazione di un punto nell’indice reputazionale di un’organizzazione – misurato dal loro indice RepTrak® – vale circa il 2,6% del valore di mercato dell’organizzazione; l’Istituto ha anche creato un portafoglio composto dalle 10 società più quotate ogni anno dal punto di vista reputazionale, e i risultati nel periodo di tempo considerato (10 anni) dimostrano che un investimento di $ 1.000 distribuito equamente tra le azioni delle prime 10 società per buona reputazione, sarebbe valso, 10 anni dopo, $ 3.025, con un rendimento migliore del 50% rispetto all’indice Dow Jones ($ 2.053), all’indice Russell 3000 ($ 2.030) e all’indice S&P 500 ($ 2.010), e che sovraperforma quindi rispetto alle medie di mercato.

Anche senza scomodare gli eccezionali studi di Eccles ad Harvard, è da tempo dimostrato in via definitiva che costruire buona reputazione aumenta il valore delle organizzazioni (e l’influenza di singoli personaggi pubblici, che siano politici, artisti, sportivi, etc.), come conferma anche la vera e propria corsa alle “certificazioni” in ambito ESG (Enviromental, Social and Governance) il cui possesso aumenta l’agibilità sul mercato delle aziende e la raccolta di denaro da parte dei fondi di investimento green, la cui reale sostenibilità è in realtà tutta da dimostrare, come abbiamo discusso in una recente ricerca scientifica presentata al Parlamento Europeo a Bruxelles.

Insomma, reputazione è uguale a denaro: quindi – si chiede qualcuno – perché non manipolarla per guadagnare di più?

Le “lavanderie reputazionali”

Come avevo segnalato in una precedente analisi, un’ inchiesta della Media Foundation Qurium, ripresa e ampliata in Italia da Lorenzo Bagnoli per conto di Investigative Reporting Projecy Italy, denuncia ciò che era noto tra gli addetti ai lavori, ovvero che esistono vere e proprie “lavanderie reputazionali”, agenzie e organizzazioni che hanno come scopo la sistematica alterazione del perimetro reputazionale di marchi e di personaggi, con tecniche le più varie: manipolazione a pagamento delle schede di Wikipedia, la consultatissima enciclopedia online; applicazione esasperata e forzate delle norme sul diritto all’oblio; comunicazioni dal sapore vagamente intimidatorio indirizzate alle redazioni giornalistiche per ottenere la rimozione di articoli poco lusinghieri pubblicati in passato sui propri clienti; pubblicazione di articoli positivi a raffica – basati sul nulla, costruiti a tavolino – con l’intento di far scalare quelli negativi nelle ultime pagine di Google; backlink selvaggio (tra i fattori che Google tiene in considerazione per decidere la posizione di un link tra i risultati di ricerca c’è il backlink, ovvero quante volte quel link sia stato incluso in altri siti web, e quindi per manipolare i risultati di ricerca si possono creare backlink di un certo articolo lusinghiero su centinaia di siti web “fake”, attivati solo per alterare questo  indice), e via discorrendo.

Tra i Clienti di queste agenzie, nella migliore delle ipotesi risultano aziende che hanno subito e patito precedenti campagne di “black PR” e che desiderano quindi – a volte legittimamente – riposizionare la propria immagine; ma – nella peggiore – troviamo anche società interessate a spingere forsennatamente sulle vendite a qualunque costo, o uomini dello spettacolo accusati di molestie sessuali, professionisti coinvolti in frodi finanziarie internazionali, o peggio ancora banchieri condannati per riciclaggio, corruttori e trafficanti di droga: l’inchiesta che ho richiamato fa coraggiosamente diversi nomi e cognomi, sia dei clienti, italiani e stranieri, ma anche delle agenzie di relazioni pubbliche e comunicazione pronte a imbastire e gestire progetti di questo tipo, con una spregiudicatezza degna a mio avviso dell’attenzione di un Magistrato.

Ma l’inchiesta di Forbidden Stories svela anche altro.

Siamo i “cattivi”, e ce ne vantiamo

Se ormai la costruzione a tavolino della reputazione, ovvero la “sistemazione” in senso migliorativo di quella esistente, è prassi risaputa e diffusa, perché non acquistare vantaggio competitivo distruggendo per quanto possibile quella dei propri interlocutori?

Il team “Jorge” è un gruppo israeliano specializzato nella diffusione di notizie false, interferenze nelle campagne elettorali e manipolazione dell’opinione pubblica anche a fini di decostruzione reputazionale, mediante l’utilizzo di un esercito di account fake e avatar. E Jorge non è certamente un caso isolato: le agenzie specializzate in questo genere di “servizi” sarebbero circa una sessantina al mondo.

Jorge è “fuori dai radar”: la sede si trova al terzo piano di un palazzo di Modi’in, una cittadina di 90.000 abitanti 35 km a sud di Tel Aviv, senza targa sulle porte e senza neppure un sito internet. Jorge, capo del team, si chiama in realtà Tal Hanan, ha un passato come membro delle forze speciali israeliane e si è messo poi in proprio creando l’agenzia, anche per guadagnare (molto) più denaro. A titolo di esempio, come documentato dall’inchiesta, il team ha manipolato trentatré diverse campagne elettorali di livello presidenziale in molti Paesi, di cui ventisette con successo.

Intercettazione delle comunicazioni telefoniche e web della controparte a fini di distruzione reputazionale piuttosto che furto di fotografie private da dispositivi mobili e pubblicazione di articoli diffamanti sulla stampa, sono solo alcuni degli strumenti correntemente utilizzati da questi “professionisti” delle relazioni pubbliche e della comunicazione digitale.

Ma anche creazione di migliaia di profili Social fake da usare contro l’obiettivo della campagna di black-PR, gestiti tramite la piattaforma (di proprietà del team Jorge) AIMS, Advanced Impact Media Solution (soluzioni mediatiche ad impatto avanzato), in grado con pochissimi click di creare un’identità virtuale completa di profili sui Social network e anche di profilo su Amazon, così da renderli più credibili. Il team ha decine di migliaia di profili fake attivi, pronti ad essere scatenati contro un oppositore o concorrente del cliente del momento, al fine di devastarne la reputazione.

Ad esempio, documenta l’inchiesta, da un finto account femminile è stato inviato a casa di un politico in vista un pacco con dei sex toys e una lettera d’amore (falsa, ma molto ben costruita): la moglie del politico ha aperto il pacco, ha cacciato di casa il marito, e la storia è finita su tutti i giornali, con grave pregiudizio dell’obiettivo e demolizione della sua licenza di operare.

Queste tecniche sono utilizzate da questi team anche per campagne di attacco verso aziende e professionisti, e la situazione pare sempre più fuori controllo.

Etica professionale… o chiacchiere?

La domanda a questo punto sorge spontanea: quando una pubblica riflessione su queste male pratiche consulenziali e professionali, che alterano e “dopano” il mercato della reputazione anche nel nostro Paese, falsando anche la percezione che i cittadini hanno di marchi e persone influenti? Nei Codici etici delle associazioni di categoria, al di là di vaghe dichiarazioni di principio non si va, e – vista la pervasività del fenomeno – forse è ora di fare qualcosa di più incisivo.

Ne parleremo con autorevolissimi relatori in un webinar il giorno 21 settembre alle ore 17: la speranza è che associazioni di categoria come ad esempio FERPI, la Federazione Nazionale Relazioni Pubbliche Italiana, ma non solo, prendano posizione con qualche iniziativa concreta per arginare questi fenomeni tossici e pericolosi sia per il mercato che per la dignità degli stessi professionisti del settore.

image_pdfVersione PDFimage_printStampa