Comunicazione politica: Italia Vs. Nuova Zelanda. Le recenti elezioni nel paese kiwy ci insegnano uno stile del tutto diverso… e migliore!
Non molto tempo fa, in un articolo a firma mia e di Giorgia Grandoni, avevo analizzato vari motivi alla base della scarsa credibilità della classe politica italiana, tendenzialmente riconducibili all’assoluta carenza di autenticità nei messaggi e alla narrazione pubblica istericamente contraddittoria, finalizzata esclusivamente alla raccolta di consensi a breve termine e attenta – in particolare – al sentiment del momento espresso dai cittadini sui Social, piuttosto che alla costruzione di un’idea di Nazione peculiare, da coltivare e realizzare con costanza e congruenza nel medio-lungo termine.
Al di la di ogni valutazione di tipo “partitico”, scrivevo che – tecnicamente, sotto il profilo della gestione della reputazione – tutto ciò non può che generare un’inevitabile crisi sistemica del mondo della politica: infatti, al di la delle legittime preferenze di ognuno di noi, l’appeal dei brand politici sull’elettore medio è oggi più basso che mai.
Il capitale reputazionale: un asset prezioso
Mentre le aziende corrono velocemente sul sentiero da tempo tracciato dell’enfatizzazione virtuosa dei propri valori, i leader politici, e le loro strategie, sembrano poggiare su declinazione di valori che cambiano a ritmo giornaliero, e che mutano continuamente in base a specifiche convenienze.
La politica, invece,nel tentativo di accaparrarsi facili consensi, è vittima di una malattia che in un’intervista l’economista Stefano Zamagni definì “shortermismo”, e lo riscontriamo nel pericoloso calo di adesione e di protagonismo dei cittadini alla vita pubblica: la percentuale di astensionismo alle ultime elezioni ha raggiunto nuovi record, con il 43,7% degli italiani – oltre 21,5 milioni di persone – che nelle ultime elezioni europee hanno scelto di non esercitare il proprio diritto al voto. Tra chi non si reca alle urne per protesta, e chi perché non si sente rappresentato adeguatamente dalle varie proposte politiche, il gap tra cittadini e gli uomini politici si fa più ampio che mai.
Non che nel resto dell’Europa – con qualche eccezione, ad esempio l’inossidabile Cancelliera tedesca Angela Merkel – vi siano eccezioni granché significative, ma allargando un po’ di più lo sguardo verso l’orizzonte, arrivando esattamente dall’altra parte del globo, una case history degna di attenzione spicca sicuramente: è la storia di Jacinda Ardem, Primo Ministro della Nuova Zelanda.
Una storia differente
Nata in centro rurale nel 1980, da padre poliziotto e madre cuoca, la Ardem non a caso si laurea in comunicazione politica e relazioni pubbliche. Lavora per la laburista Helen Clark, successivamente si trasferisce a Londra per entrare nello staff del Premier inglese Tony Blair, e torna infine in Nuova Zelanda per farsi eleggere in Parlamento.
Da deputato, è molto attiva sui temi relativi ai diritti umani – in particolare la lotta alla povertà infantile e diritti della comunità GLBT – finché diventa prima Vice Presidente del Partito Laburista e – a sole 7 settimane dalle successive elezioni – leader del partito.
Vince la sfida e diventa Premier della Nuova Zelanda (marzo 2017), con un governo insieme a Verdi e al partito New Zeland First: ha 37 anni, ed è la più giovane prima ministra donna nella storia del mondo (battuta due anni dopo da Sanna Marin, che diventa a soli 34 anni premier della Finlandia). Ha partorito suo figlio a giugno 2018, senza interrompere il mandato di governo, e senza che la sua scelta venisse messa in discussione dall’opposizione.
Come riporta la giornalista Isabelle Dellerba in un bel ritratto sul quotidiano Le Monde, la Ardern “appare raggiungibile, vicina alla gente, dotata di forte autoironia”, e soprattutto – aggiungo io – con una linea di pensiero coerente e non influenzabile facilmente dai sondaggi o dalle turbolenze dei Social: aveva un programma politico chiaro, anche quando era all’opposizione (il partito conservatore ha governato per 9 anni consecutivi in Nuova Zelanda) e a differenza di molti politici nostrani non l’ha modificato una volta al governo; promuove un messaggio di lotta contro la povertà e le diseguaglianze, di rispetto dei diritti umani, di investimenti pubblici in infrastrutture per rilanciare la crescita, e nel contempo di unità nazionale.
A marzo del 2019, ad esempio, quando un suprematista bianco compie un attentato contro una moschea e un centro islamico uccidendo 51 persone e gettando la nazione nello shock, fa approvare quasi all’unanimità una legge che vieta la detenzione da parte dei civili di armi semi-automatiche e di fucili d’assalto, semplicemente perché era la cosa giusta da fare.
La Jacindamania dilaga
Negli ultimi 2 anni, la Jacindamania – come l’ha definita la BBC inglese – è quindi dilagata sempre più, e alle successive elezioni, il mese scorso (ottobre 2020) la Premier neozelandese ottiene la maggioranza assoluta dei seggi, portando il suo partito al 49,15% delle preferenze: un risultato mai raggiunto da un partito nel Paese con l’attuale sistema elettorale.
Durante l’emergenza Covid-19 da eccellente prova di sé, grazie a una strategia basata su alcuni punti, chiari ed essenziali: chiusura immediata delle frontiere nazionali, lockdown rigido, istituito subito dopo i primi contagi, ed estrema chiarezza nella comunicazione istituzionale. La Nuova Zelanda, quindi, ha avuto solo 25 decessi per Covid su 5.000.000 di abitanti, nonostante la capitale Auckland sia una città moderna e popolosa, delle dimensioni di Milano e con una densità di abitanti per Km2 pari a Venezia: il virus è sparito dall’arcipelago già a maggio scorso.
Ma ciò che è forse ancor più interessante notare, sotto il profilo della comunicazione politica, è lo stile sia dell’attuale maggioranza che dell’opposizione: una campagna elettorale basata strettamente sui contenuti, anche assai diversi e alternativi tra destra e sinistra, ma mai degenerata in attacchi personali, tanto di moda invece in Italia.
La giornalista Laura Walters, su The Newsroom, lo ha scritto molto chiaramente a pochi giorni da voto, facendo un paragone tra la situazione Neozelandese e quella Bielorussa: “Due donne valide ed appassionate competono per guidare il nostro Paese, mentre a Minsk un bullo (Lukaschenko, ndr) si rifiuta di lasciare il potere e alle donne viene intimato di tornare in cucina”.
La Arden e la sua rivale conservatrice, Judith Collins, hanno discusso in campagna elettorale sulle differenti scelte politiche (ma è davvero così complicato riscoprire il valore di un discorso “nel merito” anche in Italia…?). La Collins ha letto con gentilezza e grande dignità il discorso nel quale ammetteva la sconfitta, invece di inventare scuse e scaricare le responsabilità, come d’uso nella nostra penisola (di nuovo: il valore della sobrietà e della coerenza…). Questo stile, proprio di entrambi gli schieramenti, era già emerso chiaramente nei dibattiti televisivi prima del voto: in occasione dell’ultimo incontro tra le due candidate, invece che lanciarsi fango addosso, hanno mostrato comunque empatia, ringraziando per lo spessore del discorso al Parlamento in occasione dell’attacco terroristico del 2019, definendolo “sincero, autentico ed efficace” (la Ardern verso la Collins) e per contro riconoscendo l’impegno della Premier, che “ci ha messo anima e cuore, e questa è una cosa ottima” (la Collins verso la Ardern).
Il discorso di insediamento di Jacinta Ardern, dopo la nettissima vittoria, è stato chiarissimo: “Viviamo in un mondo sempre più polarizzato, nel quale un numero crescente di persone ha perso la capacità di mettersi nei panni degli altri. Spero che la Nuova Zelanda con queste elezioni abbia dimostrato che noi non siamo così, che come nazione siamo in grado di ascoltare e soprattutto di discutere. Non sempre le elezioni riescono ad unire un popolo: ma questo non significa che debbano spaccarlo: e in tempi di crisi, penso che la Nuova Zelanda abbia dimostrato proprio questo”.
Due modi profondamente diversi di vedere il futuro della Nuova Zelanda, quella laburista e quello conservatore, ma che si rispettano nelle loro differenze, e che non traggono pretesto da fatti di cronaca per insultarsi, sbeffeggiarsi, delegittimarsi: il successo dell’uno è basato sui propri risultati concreti, e non sulla forzata diminutio dell’altro.
Reputation management: il valore della coerenza nella comunicazione politica
Al contrario del paese “kiwi” situato all’esatto opposto del pianeta rispetto all’Italia, i politici nostrani non godono di una buona reputazione: una realtà non solo riscontrabile da un’analisi empirica, ma assodata, in quanto documentata e misurata. Coinvolti in quella che appare come una campagna elettorale permanente, i nostri politici disilludono il pubblico, tentando ridicoli equilibrismi tra alleanze improbabili e la scelta di abbracciare oggi ciò che solo ieri si criticava aspramente o viceversa.
Come sappiamo, la reputazione è un asset importante – il più prezioso tra quelli “immateriali” – che si costruisce assieme ai propri pubblici, per durare nel tempo, ed essere poi “scambiata” con una più ampia licenza di operare: la scelta dei politici di ignorare sistematicamente questa realtà sta scavando un solco tra sistema politico italiano e la cittadinanza, danneggiando il primo – riducendone, tra l’altro, potenzialità ed efficacia – e disilludendo i secondi.
Autenticità, coerenza, comunicazione di valori conformi alla propria identità, creazione di strategie di brand reputation a medio-lungo termine (sia che si tratti di aziende che di istituzioni pubbliche o influencer politici), capacità di saper prevenire scenari futuri di crisi reputazionale e, infine, propensione ad assumersi le proprie responsabilità: queste sono sei tra le principali best practices da seguire per tutelare al meglio la propria reputazione, e questo è ciò che la politica italiana può – e dovrebbe – imparare dalle best practice del Reputation management.
A quando, quindi, un biglietto – pagato da noi contribuenti, perché no – per un educational in Nuova Zelanda per i nostri vari Salvini, Di Maio, Zingaretti e Meloni…?