image_pdfVersione PDFimage_printStampa

Lo straordinario lavoro di Porter, Serafeim e Kramer dal titolo “Where ESG fails”, pubblicato sulla rivista Institutional Investor un paio d’anni fa, confermò da un lato che è fuori discussione l’opportunità di una maggiore crescita in termini di redditività e vantaggio competitivo derivanti dall’inserimento di preoccupazioni di carattere etico, sociale e ambientale, come parte integrante dei piani strategici di un’azienda; dall’altro lato, cosa a mio avviso più interessante, sollecitò l’attenzione sui limiti intrinsechi del modello “ESG – Enviromental, Social and corporate Governance”, tanto di moda negli ultimi anni, al centro di crescenti speculazioni da parte dei professionisti che vendono a caro prezzo consulenza per poter ottenere le ambite certificazioni, delle quali aziende medie e grandi – in preda a una specie di bulimia compilativa tipica del framework americano – paiono non poter più fare a meno.

Opinione attualmente diffusa vuole che le società che hanno posizioni migliori in classifica sulla base di metriche ESG, otterranno – già solo per questo – migliori rendimenti per gli azionisti: questa convinzione secondo Porter è semplicemente errata, “è basata su un castello di carte, un gigante dai piedi d’argilla”.

E a poco serve citare il celebre lavoro di Eccles ad Harvard, ampiamente validato da evidenze scientifiche inconfutabili: esso, infatti, è basato sul fare, non solo sul classificare, prova ne sia che aziende in alta posizione nelle classifiche ESG non necessariamente garantiscono over-performance agli investimenti, né tantomeno un profilo di sostenibilità più elevato, per motivi che ho ben dettagliato in un mio recente intervento a un webinar organizzato dall’analista finanziario indipendente Alfonso Scarano.

Senza tema di smentita, mi sento di affermare – come già sostenuto dai colleghi – che i modelli basati sugli indici ESG sono centrati su uno sguardo del tutto generale, avulso dal particolare, e che può generare effetti imprevisti e preoccupanti: si tratta in poche parole di una vera e propria mania classificatoria, l’ennesima, tipica del mondo anglosassone. Ad esempio, l’impatto ambientale di una banca non è necessariamente rilevante per la sua performance economica: una corretta politica di contenimento delle emissioni nocive in atmosfera otterrebbe un alto punteggio sugli indici ESG, ma non influenzerebbe significativamente le emissioni di carbonio globali; al contrario, l’emissione da parte della banca di prestiti subprime che i clienti non saranno in grado di ripagare, o peggio la commercializzazione di titoli tossici, potrebbe avere devastanti conseguenze sociali e finanziarie, come le cronache di pochi anni fa hanno dimostrato. Nonostante ciò, il reporting ESG ha dato credito alle banche per la prima questione e, allo stesso tempo, ha tralasciato colpevolmente – o dolosamente? – la seconda.

E non è molto differente in altri settori: Volkswagen prima dello scandalo del Dieselgate era prima in molte classifiche di RSI e ESG; e Jeff Bezos, con il suo Bezos Earth Fund, ha deciso sì di destinare 10 miliardi di dollari a borse di studio e finanziamento di idee sulla sostenibilità (senza peraltro curarsi di verificare poi il buon fine dei progetti finanziati), ma ben si guarda dallo spendere un solo dollaro per migliorare realmente i processi di sostenibilità all’interno del proprio colosso imprenditoriale.

L’ammontare delle somme in gioco è assai goloso anche sul fronte della raccolta degli investimenti: degli 800 miliardi previsti dal piano Next Generation UE, ben il 30% dovrà essere reperito mediante emissioni “green”. La normativa europea per il controllo di questo mercato esiste, pur in fase di aggiornamento, ma, come denunciato da diversi affidabili analisti e osservatori, non pare sufficiente a evitare il rischio di politiche scorrette e di ecologismo di facciata, con il risultato che le aziende e i fondi sulla carta più virtuosi grazie appunto alle certificazioni ESG potrebbero essere quelli in grado di raccogliere più investimenti, sulla base semplicemente di una migliore capacità di narrazione del loro – del tutto presunto – basso impatto ambientale e sociale.

Morale: l’adozione diffusa del reporting ESG ha, come effetto indiretto, l’aver “tranquillizzato” gli investitori e i cittadini, ma, al contempo, ha distratto le aziende dall’attrezzarsi per causare un impatto sociale rilevante riguardo alle questioni realmente centrali per i propri business: come se, assolti gli obblighi ESG, si potesse tirare un respiro di sollievo, con la certezza di aver fatto bene “i compiti a casa”.

Come convincere allora gli investitori a uscire dalla zona di confort di un sistema di classificazione standard, che non inserisce nell’equazione il tema dell’autenticità, ma solo quello degli ESG come adempimento sterilmente burocratico?

Una risposta in linea con la dottrina del reputation management richiederebbe che le aziende comunichino e misurino rigorosamente le metriche quantitative concrete che collegano direttamente i fattori sociali con la performance economica, abbandonando un approccio rigido e schematico quale quello tipico degli ESG. Ad esempio, una società d’investimento non può delegare la considerazione delle questioni sociali e ambientali a un singolo analista ESG in modalità ex post, al termine del processo di analisi, solo mediante un visto di conformità: l’intero team d’investimento dovrebbe combinare la comprensione dei fattori e dell’impatto sociale con la competenza finanziaria e industriale, ad esempio inserendo esperti in questioni ambientali e sociali all’interno dei team che valutano gli investimenti.

Un’altra risposta, nel cui contenuto credo profondamente, è quella di stimolare le istituzioni a applicare il già esistente regime sanzionatorio previsto per le Dichiarazioni Non Finanziarie (DNF, normate dal D.Lgs. n. 254/2016) in caso di violazioni nel processo di accountability delle imprese, specie laddove esse includano palesi violazioni del principio di fiducia verso gli stakeholder. La normativa attuale prevede un regime sanzionatorio applicabile in questi casi (per la precisione da 25.000 a 150.000 euro, a seconda dei casi).

Consob accompagna le aziende interessate a pubblicare una DNF – od obbligate per legge a farlo – con un’apprezzabile progetto pluriennale, che inizia a dare i primi risultati, seppure con ampi margini di miglioramento, e negli ultimi 3 anni ha pubblicato una rendicontazione a riguardo (qui i report in originale, dal 2018 ad oggi). L’impegno dei funzionari Consob è particolarmente rivolto, nel corso dell’attività di vigilanza, a sollecitare alle aziende verso cambiamenti strategici e riflessioni su eventuali non compliance, e nei rapporti pare essere dedicata particolare attenzione ai comportamenti – anche dei Consigli di Amministrazione – relativi alla qualità del processo di materialità.

Lato ammende, invece, non si ha alcuna notizia: pare che l’impianto sanzionatorio, che pure esiste, non sia mai stato applicato, in una specie di moratoria di fatto, forse in ossequio a una precisa strategia che prevede l’applicazione di una pressione crescente sulle aziende, o per altri motivi non dichiarati, o ancora – osservano alcuni commentatori – a causa dell’assenza di risorse professionali adeguate a esercitare una concreta ed efficace azione di controllo da parte appunto della Consob, che dovrebbe effettuare l’accertamento e l’irrogazione delle sanzioni sulla base di verifiche effettuate a campione, delle quali però, paradossalmente, la relazione annuale della Consob stessa non riporta alcunché, con il risultato che chi dovrebbe vigilare sulla corretta rendicontazione non rendiconta a sua volta, o rendiconta solo parzialmente.

In quest’ottica, la giustizia italiana ci sta mettendo del suo: è recente la prima condanna a carico di un’azienda per pubblicità scorretta in campo ambientale. A quando allora il reato di Greenwashing nelle comunicazioni sociali obbligatorie in campo ESG, e – perché no – in quelle facoltative?

Come insegnano la storia dell’economia aziendale, della ragioneria e del diritto, senza sanzione non esiste norma efficace, ed anche quando è prevista una sanzione, in assenza di applicazione puntuale della stessa le violazioni si moltiplicano. Le trasgressioni del patto etico e di trasparenza che dovrebbe legare aziende e stakeholder verranno finalmente, prima o poi, considerate alla stessa stregua dei falsi in bilancio?

image_pdfVersione PDFimage_printStampa