Francois Michelin – l’uomo che portò la sua fabbrica di pneumatici ad essere leader mondiale assoluta nel proprio settore – in una bella intervista rilasciata anni fa ad un periodico italiano affermò convinto che “tagliare pietre” e “costruire cattedrali”, ancorché atti fattualmente assimilabili, sono invece azioni ben diverse.
Cosa le distingue?
Secondo l’81enne capitano d’industria, la differenza è data dalla capacità di “pensare al futuro”, dando concretezza alle proprie passioni e ai propri sogni, costruendo nuovi scenari e conferendo così al proprio lavoro un senso profondo e differente.
Di eguale statura fu l’italiano Adriano Olivetti, pioniere della psicologia del lavoro, che in epoca non sospetta implementò spontaneamente politiche di Corporate Social Responsibility (CSR) articolate ed efficaci nella propria grande azienda.
L’interesse per la psicologia di Olivetti – pochi lo sanno – era dettato da motivi anche personali: aveva iniziato un percorso di analisi clinica con Cesare Musatti, di indirizzo freudiano, per proseguirlo poi con Ernst Bernhard, caposcuola degli junghiani in Italia.
Entrambi questi psicoanalisti, di grande fama e indubbie capacità, ebbero un’influenza non trascurabile nell’indirizzare il pensiero di Adriano Olivetti: scopriamo quindi che le neuroscienze s’intrecciarono con la Responsabilità Sociale d’Impresa già ai suoi albori nel nostro paese, tanto che proprio presso l’azienda di Ivrea, nel lontano 1943, nacque il primo Centro specializzato in psicologia del lavoro, la cui direzione venne affidata inizialmente proprio al Prof. Musatti, e che divenne il più autorevole e innovativo riferimento per la psicologia industriale in Italia fino a tutti gli anni ’70 (l’ultimo contributo di rilievo fu il congresso “Stress e lavoro industriale”, nel giugno del 1978).
Da allora molto si è scritto sul rapporto tra ambiente lavorativo e benessere psichico del singolo.
Un campo che invece mi pare sia ancora poco esplorato da noi comunicatori e relatori pubblici – non me ne vogliano psichiatri e specialisti se banalizzerò concetti cari alla loro professione – è quello del rapporto – se esiste, e a mio avviso esiste – tra introduzione di preoccupazioni di carattere etico nella vita d’impresa, futuro della società, capacità di creare futuro da parte del singolo individuo, ed equilibrio psicologico suo e della comunità in cui vive.
Trovo affascinante, e a mio avviso per nulla infondato, ipotizzare una relazione stretta tra le neuroscienze e la CSR, che va ben oltre di quella certamente esistente tra benessere del sistema economico, denaro e benessere personale: l’ipotesi di ricerca che mi stimola è quella che prevede che – se è vero che siamo tutti, individui ed aziende, parte di una rete sociale articolata, come ipotizzavo nel mio saggio “Reti Neurali complesse” – il livello di sanità mentale e di benessere di un gruppo umano non può prescindere dal grado di sanità mentale e di benessere del singolo, ed esso è a sua volta in strettissima correlazione con la sua capacità di immaginare scenari futuri, o – per dirla alla Michelin – di “costruire cattedrali”.
E cos’è la CSR se non la capacità di “costruire cattedrali”? Come ci ricorda Anna Oliverio Ferraris, ricercatrice di grande esperienza, docente alla Sapienza di Roma e autrice – tra le sue numerose pubblicazioni – del bel manuale “Le età della mente”, sono editi a profusione studi sugli aspetti negativi e patologici dell’umore – depressioni, disturbi bipolari, psicosi, eccetera – mentre sono rarissimi quelli sugli stati “positivi”: tutta la tradizionale ricerca psicobiologica ruota intorno all’infelicità umana, mentre il tema della felicità e dei meccanismi che la generano – sia essa la felicità di un singolo che di un’intera comunità – sono da sempre sorprendentemente trascurati, quasi fossero vittima di una qualche preclusione ideologica, forse generata – ipotizza la Oliverio Ferraris, da una matrice per certi versi “utilitarista” della psicologia anglosassone, la quale prevede che la felicità sia frutto del mero raggiungimento di “obiettivi” e abbia quindi un‘origine prevalentemente “esterna” all’essere umano.
In realtà, le più recenti ricerche paiono dimostrarci che la genetica, le dinamiche neurochimiche e cerebrali e l’ambiente, sono variabili molto più strettamente interdipendenti di quanto fino a non troppo tempo fa si era ipotizzato. Autorevoli studi (cfr. la bibliografia in appendice a questo breve saggio) confermano che le persone ottimiste e tendenzialmente felici hanno una più elevata attività cerebrale nel lobo prefrontale sinistro, una zona della corteccia coinvolta negli stati umorali. Inoltre gli stessi studi confermano che i loro livelli di anticorpi sono sempre più elevati che non nei soggetti depressi o tristi, e che quindi i “creativi-ottimisti” riescono a resistere meglio agli attacchi esterni di batteri e virus. In definitiva, sono “più sani”, sia psicologicamente che fisicamente.
Il problema che si pone casomai è se tali manifestazioni delle funzioni cerebrali, differenti tra soggetti ottimisti, propensi a “creare futuro”, e soggetti pessimisti, per i quali “non c’è futuro”, siano la causa o l’effetto: una diversa attività dei neurotrasmettitori causa la felicità, o una persona in quanto felice ha una più elevata attività corticale? A questa domanda la psichiatria in tanti anni di ricerca non ha ancora saputo dare risposta, anche se è impossibile non osservare come i più diffusi farmaci psicoattivi, nati con l’ambizione di “generare felicità” moderando o aumentando la produzione di questi o quegl’altri neurotrasmettitori si siano in larga misura dimostrati un fallimento, meri placebo, al meglio efficaci solo per mitigare i sintomi per un breve periodo di tempo durante l’assunzione, poco più efficaci di una pillola di zucchero e al prezzo di effetti collaterali potenzialmente distruttivi.
Quella che è certa, e ormai indiscussa, è invece la stretta correlazione tra piano fisico e piano mentale: gli ottimisti prestano più attenzione ai segnali positivi – sia concreti che immateriali – che provengono dall’ambiente che li circonda, e nel farsi influenzare dai fattori ambientali privilegiano questi ultimi rispetto ai segnali negativi.
La psicobiologia ha dimostrato che alcune aree del sistema nervoso centrale esercitano un ruolo importante sugli stati umorali dell’individuo, che valuta la situazione in cui si trova, i messaggi provenienti dall’ambiente e le aspettative derivanti dai rapporti sociali e professionali, definendo poi ogni scenario in termini positivi o negativi, e reagendo con un differente grado di apprensione o di capacità di rispondere allo stress a seconda di una molteplicità di fattori, tra i quali spiccano certamente il temperamento, i fattori cognitivi e l’interpretazione della realtà.
Tutti questi fattori sono però indiscutibilmente condizionati anche dalla nostra esperienza: da quel bagaglio di sensazioni ed emozioni che costituiscono i mattoni con i quali costruiamo il nostro vissuto.
Il cervello è infatti un organo estremamente plastico ed è impegnato in una continua metamorfosi, in un inarrestabile processo di ridefinizione, dall’infanzia alla vecchiaia: ad esempio, anche in un organismo adulto, la mappa somatosensoriale si modifica con riguardo ai vari cambiamenti di informazione provenienti dalla periferia e dall’esterno.
Emilia Costa, Professore emerito di Psichiatria della Sapienza di Roma e ricercatrice di fama in Italia e nel mondo, nel suo saggio “Il cervello e la mente: dal neurone al comportamento”, conferma che il sistema nervoso simpatico e vegetativo – un tempo ritenuto “passivo esecutore” del sistema nervoso centrale, e successivamente invece riqualificato come un sistema interconnesso con il cervello e funzionalmente interdipendente, ma entro certi limiti in grado di operare in autonomia – raccoglie impulsi sensitivi dagli organi del corpo umano a contatto con l’ambiente, inclusi quegli stimoli che non raggiungono il livello discriminativo di coscienza.
Questo sistema nervoso esprime in termini somatici la nostra condizione psico-emotiva, garantendo un “controllo sulla risposta allo stimolo”, mediante un feedback basato sul rilascio e sul metabolismo di ormoni, neurotrasmettitori, endorfine ed altri mediatori chimici.
Sulla base di tutto quanto ho evidenziato, confortato dalle ricerche dei psicobiologi e dei neuroscienziati, che con gli studi più recenti hanno recuperato mediante un modello di casualità circolare un messaggio di integrazione tra i maggiori apparati che regolano gli equilibri all’interno dell’organismo e le sue relazioni con l’esterno, arrivo ad ipotizzare che un’intensa e continua “immersione” in un ambiente ricco di stimoli positivi e costantemente proiettato ad immaginare scenari futuri – qual è quello di una CSR gestita nell’interesse della migliore sopravvivenza del maggior numero di stakeholder e quindi dell’intero pianeta – possa influenzare se non le capacità mnemoniche procedurali certamente le memorie semantiche, il mantenimento in buono stato delle quali è un efficace indice di controllo per verificare lo stato di invecchiamento dell’individuo.
Gli operatori della CSR, così come i capitani d’industria vecchio stile come Michelin ed Olivetti, sviluppano quindi strategie cognitive che consentono loro di ipotizzare e padroneggiare da protagonisti scenari futuri con estrema disinvoltura aggiornando continuamente i propri schemi mentali, e questo – dai dati scientifici in nostro possesso – ha un ruolo nella loro capacità di risolvere problemi complessi e influenzare anche dimensioni, plasticità e funzionalità della loro mappa cerebrale, in un continuo stimolo virtuoso del rapporto esistente tra interazioni sociali, estensione dello spazio di controllo, intensità delle afferenze ambientali e strutturazione anatomico-biochimico-cerebrale.
Come ci ricorda la Costa, infatti, “un ambiente ricco di stimolazioni positive fa aumentare lo spessore corticale delle cellule, migliora l’attività modulatrice degli impulsi nervosi e conseguentemente le prestazioni comportamentali”.
Questa disamina ci riporta alla conclusione del mio saggio già citato, laddove affermavo che persino i Veda indiani – migliaia di anni fa – indicavano noi tutti come parti di “un Uno unico, interdipendenti l’uno dall’altro”, connessi, al di la delle distanze, molto più strettamente di quanto si possa sospettare.
Potremmo allora scrivere e discutere anche della Corporate Social Responsibility come di una disciplina utile a disegnare i contorni e a valorizzare l’esistenza di una “suprema rete neurale”: la rete complessa che a livello planetario pone in relazione ognuno di noi con l’altro, ogni istituzione con un’altra istituzione, ogni azienda con le altre aziende, e tutti questi elementi organicamente tra loro.
In definitiva, “sintonizzarci” meglio, più armonicamente, più efficacemente con questa rete neurale, mentre operiamo per creare scenari futuri positivi tramite la CSR, non potrà che migliorare il grado di benessere e sanità mentale nostro, del nostro team, della comunità alla quale apparteniamo, e quindi – come pezzi di un grande puzzle – del pianeta intero.
Questo nuovo modello di sviluppo ha la sua chiave nel fondamentale passaggio dalla “vecchia” Corporate Social Responsibility a un nuovo paradigma, che potremmo definire – adottando un termine già utilizzato con altre accezioni – Human Social Responsibility, paradigma ancora in buona parte da codificare, ma del quale possiamo facilmente intuire l’immenso potenziale in termini di rinnovamento creativo della nostra consapevolezza di comunicatori e relatori pubblici.
Breve bibliografia (in ordine per cognome):
– E. Costa, “Il cervello e la mente: dal neurone al comportamento” – in “La Formazione in Psichiatria e Psicologia Clinica”, di Emilia Costa e Maria Di Giusto – CIC Edizioni Internazionali, Roma 2004;
– E. Costa et al., “Dallo stress psicosociale alla malattia” – Psiche Donna – Vol. 4, n. 3, CIC Edizioni Internazionali, Roma 2003;
– E. Costa, “La comunicazione efficace, ovvero il contrario del Brain Washing”– CIC Ed. Internazionali, Roma 2001;
– Davidson R. J. et al, “Approach-withdrawall and Cerebral asymmetry: emotional expression and brain physiology”, in “Journal of Personality and Social Psychology” – 58(2), 1990, pag. 330-341;
– Diener E., “Subjective well-being: the science of happiness and a proposal for a national Index”, in “American Psycologist” – 55, 2000, pag. 34-43;
– M.G. Malvestito, E. Costa, “Le politiche economico–aziendali di prevenzione e di contrasto” – in Prevenire il Mobbing – Giappichelli, Torino 2005;
– L. Mecacci, “Industria e psicologia: Adriano Olivetti” – in Psicologia contemporanea, edita da Giunti, Milano Nov. Dic. 2010 n° 222;
– F. Michelin, “La cattedrale di Michelin”, intervista pubblicata sul periodico Avvenire in data 23/04/2008 pag. 31, e ripubblicata sulla newsletter del sito creatoridifuturo.it e lucapoma.info in data 23/02/09;
– C. Musatti et al., “Psicologi in fabbrica: la psicologia del lavoro negli stabilmenti Olivetti” – Einaudi, Torino 1980;
– A. Oliverio Ferraris, “Le età della mente” – Edizioni BUR, Milano 2004;
– A. Pizzoccaro, “La felicità interna lorda: dai paradigmi del XX secolo alla vera misura del benessere”, in “Etica anticirisi”, edito dal Centro Studi della Fondazione Banca Europa, 2009;
– L. Poma, “Reti Neurali complesse: nuovi strumenti per la CSR” – Ferpi News, 27/01/09;
– M. Pugno, “Economia, autonomia e benessere personale” – in Psicologia contemporanea, edita da Giunti, Milano Nov. Dic. 2010 n° 222;
– un ringraziamento particolare va a Massimiliano “Max” Judica Cordiglia per la creazione, nel corso di uno dei suoi “aperitivi creativi” presso la sede della società di produzione audio-video Juma Tv, del termine “Human social responsibility”.
I rapporti della Corporate Social Responsibilitycon le neuroscienze e la biopsicologia.