Serve una voce che con il massimo dell’autorevolezza plachi il panico
Qualcuno dovrà parlare al Paese, prima o poi. Qualcuno dovrà farlo perché la situazione che stiamo vivendo non ha precedenti, perché qualcosa di imprevedibile e angosciante ci ha infilati in un tunnel, emotivo prima ancora che sanitario, dentro il quale bisogna trovare presto un modo per convivere, per adattarsi al buio, in attesa dell’uscita.
Non si tratta di dispensare rassicurazioni o richiami alla razionalità in occasioni pubbliche o in interventi a pioggia dentro i molti programmi televisivi colonizzati dall’argomento. L’invito è più solenne: un messaggio a reti unificate, e siti, e radio, in cui il presidente della Repubblica o il presidente del Consiglio guardino in faccia gli occhi di milioni di italiani spaventati e, con sincerità, dicano loro il po’ di verità di cui dispongono e passino il messaggio che non c’è un colpevole da odiare ma un’emergenza comune
da affrontare, possibilmente ritrovando quel senso di comunità che questo Paese, anche nei giorni dell’infuriare del morbo, sembra scordarsi di avere avuto.
Il coronavirus, visto al microscopio, ha le sembianze innocue di una pallina da golf punteggiata sulla superficie da un certo numero di segnalini rossi, a fargli appunto corona. Non è mortale come la peste che nel milleseicento provocò un milione di morti, e neanche come l’Asiatica, che ne fece quasi un milione e mezzo.
Probabilmente ne uccide di più una normale influenza stagionale, di certo la polmonite (11 mila decessi l’anno), o l’alcolismo, gli incidenti stradali. E poi ha una percentuale di guarigione molto elevata, dicono gli esperti che molti ne escono senza neppure sapere di averlo contratto.
Eppure, da quando è comparso in Cina, nella città di Wuhan, e l’11 gennaio ha causato la prima vittima, 50 giorni fa (appena 50); da quando la pallina, dopo aver rimbalzato in Corea del Sud, Giappone, Iran, è rotolata fino da noi, nella lombarda Codogno, il 21 febbraio, 10 giorni fa (appena 10), per poi schizzare impazzita nel resto d’Europa, nelle Americhe, nel Medio Oriente; da quando il tunnel si è materializzato, facendo sprofondare l’inizio del 2020 in una specie di botola dove non vale la logica dei numeri ma vince l’irrazionalità del panico, il nostro piccolo mondo si è chiuso in mondi ancora più piccoli, sperando che il male si scateni altrove, scansando il proprio cortile, e la nostra piccola Italia ha preso ad agitarsi come un formicaio disturbato da un bastone.
Sembrava e continua a sembrare impossibile che un virus a bassa letalità possa mandare in tilt il sistema glorioso della nuova era digitale, le potenzialità fantastiche dell’intelligenza artificiale, la convinzione universale che ormai agli umani niente è precluso, tranne il teletrasporto, per ora.
E invece tutto si è inceppato, le borse sprofondano, le stime di crescita si afflosciano, crollano le prenotazioni aeree e decollano le disdette di tutto, dai viaggi agli eventi internazionali. Le teleconferenze hanno sostituito le riunioni, la distanza tra le persone (almeno un metro o, meglio, due) è diventata l’unità di misura della convivenza. Si farà l’Olimpiade a Tokyo del prossimo luglio? Boh. In meno di due mesi, la pallina da golf con la corona ci ha rispediti in un altro evo, quello della precarietà e dell’incertezza. Un salto all’indietro così brusco da generare, comprensibilmente, sgomento e panico.
In questa lacerazione globale, noi italiani stiamo pagando uno dei prezzi più alti. Terzo Paese per contagiati dopo Cina e Corea del Sud, trattati dagli altri Stati come molti di noi hanno preteso e pretendono di trattare i migranti delle molte terre dei fuochi, indesiderati per contrappasso come potenziali esportatori del male, ci troviamo a fare i conti anche con una dissipazione del nostro valore di nazione, con lo spettro di una recessione rapidissima sullo sfondo di un’economia già provata e potenzialmente esposta al collasso. Il nostro sistema sanitario nazionale ci è già arrivato, al collasso.
In 10 anni sono stati cancellati 70 mila posti letto, mancano 8 mila medici e 35 mila infermieri. A furia di tagli, abbiamo debilitato le nostre difese immunitarie, fino a renderle assolutamente inadeguate a fronteggiare la gestione ordinaria, figurarsi un ciclone come quello che si sta abbattendo su un Paese che ha colpevolmente deciso di ammainare una delle bandiere della propria Costituzione, il diritto alla salute per tutti i cittadini.
Non potrà essere l’eroismo degli operatori impegnati allo sfinimento nelle zone rosse o gialle, dagli scienziati di epidemiologia agli addetti alle pulizie, a contenere il danno. Si stancheranno, quegli eroi, a un certo punto saranno costretti ad abbassare la guardia proprio nel momento in cui, invece, bisognerebbe alzarla e tenerla altissima.
C’è un dovere superiore, il bene nazionale, che imporrebbe di sostenerli specie adesso, che il tunnel è ancora lungo e la loro esperienza, maturata in un campo e in un tempo improvviso, può fare la differenza.
Salvo per l’irresponsabilità di qualche politico che conta di cavare vantaggio anche da questa infezione sociale, molto più perniciosa di quella virale, i toni di chi ha qualche responsabilità nella gestione della cosa pubblica sembrerebbero improntati a una sospensione di velleitarie ostilità da campagna elettorale. Se c’è un comune sentire italiano, questi sono i giorni per farlo emergere con fermezza contro ogni tentativo di sfruttare persino il Covid-19.
Serve una voce che con il massimo dell’autorevolezza parli al Paese, rimetta a posto gli sciacalli, plachi il panico che va diffondendosi e proietti dell’Italia, anche all’estero, a quanti ci stanno evitando come la peste, l’immagine di una nazione ferita ma fiera, capace di affrontare con dignità il baco inatteso del Terzo millennio.