Siamo nella tempesta più difficile, ma perché non proviamo a sfruttare questo vento? L’economista portavoce di uno sviluppo più sostenibile e più equo spiega come potremo ripartire. Senza per forza dover tornare al punto di prima
Gli esperti di «studi sul futuro» tengono a specificare che, nella loro disciplina, si dovrebbe sempre parlare di «futuri», al plurale. E non solo perché, come diceva Niels Bohr, premio Nobel per la Fisica nel 1922, «è difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro», ma perché possiamo scegliere il futuro (è il titolo del mio libro del 2014, edito da Il Mulino), non solo subirlo.
Mi rendo perfettamente conto che può essere difficile leggere queste righe, in un momento così drammatico, senza scetticismo, o senza provare un moto di fastidio.
Un tempo nel quale il numero di contagiati dal coronavirus e il numero dei morti aumentano ogni giorno in tutto il mondo. Un tempo in cui metà della popolazione mondiale subisce restrizioni senza precedenti alla libertà di movimento. Un tempo in cui il senso stesso del futuro appare stravolto. Ma è proprio in questo tempo che siamo chiamati a ragionare sul domani che vogliamo costruire come individui, come società, come comunità umana che abita il pianeta Terra.
Da un mese a questa parte i siti web di tutto il mondo sono pieni di riflessioni di esperti di diverse discipline sui futuri che possiamo decidere di realizzare: futuri di condivisione e solidarietà o futuri di conflitti e scontri tra società e tra gruppi sociali; futuri in cui la tecnologia ci consentirà di trasformare in meglio la nostra vita, offrendo nuovi spazi di libertà o futuri in cui la tecnologia sarà usata per controllare le persone e realizzare torsioni dei sistemi politici in senso antidemocratico; futuri in cui lo Stato assumerà un ruolo molto più ampio di quanto sperimentato negli ultimi quarant’anni per proteggere le persone e orientare le scelte verso il benessere collettivo o futuri in cui lo Stato collasserà a causa dell’insostenibilità finanziaria; futuri che trasformeranno in meglio le società, che finalmente sceglieranno di migliorare l’ambiente e abbandoneranno il consumismo sfrenato, o futuri che renderanno tutti molto più poveri e aumenteranno le disuguaglianze.
Solo tre mesi fa (ma sembra passata un’era geologica), i leader mondiali discutevano a Davos, in occasione dell’annuale World Economic Forum, su come avviare una trasformazione profonda del capitalismo, per renderlo più sostenibile sul piano ambientale e meno diseguale su quello sociale. E si citava il numero crescente di imprese che abbracciavano i nuovi principi di responsabilità sociale d’impresa, impegnandosi a contribuire alla realizzazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, approvata da tutti i Paesi del mondo il 25 settembre 2015, e al conseguimento dei suoi 17 obiettivi e 169 sotto-obiettivi. E si citava la straordinaria trasformazione (mai vista negli ultimi 35 anni, dicevano gli esperti mondiali) della finanza, finalmente orientata a imprese e progetti finalizzati alla realizzazione dell’Agenda 2030, alla transizione energetica, all’adozione dei principi dell’economia circolare. E i politici presentavano i loro Green New Deal, cioè i piani finanziati dai governi per trasformare i sistemi economici e combattere la crisi climatica, così da rispondere alla domanda di cambiamento proveniente dai giovani di tutto il mondo.
E ora, al tempo del coronavirus, dove sono quelle idee, quelle speranze, quegli impegni che facevano dire ai tanti che da anni spingevano per la trasformazione del modello socio-economico che era finalmente «la volta buona»? Dove sono quei politici, quei leader delle imprese e della finanza, quegli opinion leader e quegli attivisti di tutto il mondo? Tutto dimenticato? Tutto accantonato in nome della necessità di fronteggiare la drammatica caduta del reddito, dei consumi, delle attività economiche e dell’occupazione che stiamo osservando in tutto il mondo e che ci aspettiamo sarà senza precedenti?
Per ora sembra sia così. Ma basta ricordare per un attimo che è doveroso parlare di «futuri» possibili che la nostra attenzione si risveglia e che l’innata capacità dell’uomo di immaginare il domani (qualcuno dice che questa, al contrario dell’intelligenza, sia presente solo nella nostra specie) ci aiuta a recuperare lucidità e a capire che a questa crisi possiamo reagire in tanti modi, e che da questo dipenderà il nostro futuro. Per esempio, possiamo rifiutare la classica logica dei «due tempi» (ora mi occupo dell’emergenza, al resto penserò dopo), scegliendo di orientare le politiche e le scelte individuali non al rimbalzo indietro, cioè al tentativo di tornare a dove eravamo prima della crisi, ma a un «rimbalzo in avanti», verso un futuro diverso e, sperabilmente, migliore.
Prendiamo l’Italia. Come dimostrato dai dati elaborati dall’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) a febbraio di quest’anno, il nostro Paese non era su un sentiero di sviluppo sostenibile. Povertà, disoccupazione, inquinamento, disuguaglianze tra gruppi e territoriali, bassa educazione, profondi divari nell’accesso ai servizi sanitari e educativi, alta evasione fiscale (110 miliardi all’anno) e così via. Ma veramente vogliamo tornare a dove eravamo? O piuttosto non dobbiamo impegnarci per stimolare una «resilienza trasformativa», cioè ridurre al massimo la caduta del reddito e la distruzione di base produttiva, proteggere i più deboli e rafforzare il sistema sanitario, ma anche preparare e orientare la ripresa e la ricostruzione per migliorare i diversi aspetti della qualità della vita?
Alcuni esempi. Ogni anno lo Stato eroga a famiglie e imprese 19 miliardi di sussidi che danneggiano l’ambiente e 16 miliardi di sussidi che favoriscono l’ambiente. Ogni anno lo Stato riconosce decine di miliardi di spese fiscali, cioè di detrazioni e deduzioni per motivazioni diverse, definite nel corso degli anni da governi di vario orientamento. Ebbene, non sarebbe il momento di operare una profonda revisione degli incentivi e delle spese fiscali alla luce delle nuove priorità e urgenze?
Molte imprese ripenseranno le proprie catene di fornitura. Alcuni pensano che la globalizzazione diventerà regionale, cioè che le imprese preferiranno rivolgersi a fornitori più vicini sul piano territoriale, all’interno di aree geoeconomiche più omogenee. Questa tendenza rappresenta un’opportunità per il nostro Paese, la seconda manifattura d’Europa, a patto di rivedere le procedure amministrative che presiedono all’insediamento di nuove imprese e il sistema degli incentivi, nel rispetto delle regole ambientali e del rispetto dei diritti dei lavoratori.
L’esperimento forzato di smart working che milioni di persone stanno facendo può cambiare il modo in cui le imprese e le città funzionano. Per esempio, se tante imprese manterranno questa pratica anche dopo la rimozione dei divieti di movimento, ma lo faranno in modo disordinato (per esempio, tutte il venerdì), le nostre città continueranno a essere intasate e inquinate per quattro giorni a settimana, invece che cinque. Se, al contrario, la politica coordinasse meglio le decisioni delle imprese, si potrebbe avere una riduzione del traffico e dell’inquinamento per tutta la settimana.
L’esperimento forzato di smart learning che i docenti e gli studenti stanno facendo ha trasformato tante case in aule universitarie e scolastiche e ha obbligato tutti a elaborare nuovi approcci educativi. Visto che l’Italia non dispone di un programma sistematico di formazione continua degli adulti, non si potrebbe, una volta che le ragazze e i ragazzi siano tornati in classe, sfruttare questa innovazione per impostare un tale programma a costi contenuti? Nel momento in cui si immettono nel mercato ingenti fondi pubblici finalizzati al sostegno delle imprese, non sarebbe possibile orientarli anche verso l’adozione di tecnologie e pratiche innovative nella direzione dell’economia circolare, paradigma in grado di ridurre l’impatto ambientale, aumen- tare l’occupazione e ciononostante incentivare produttività e redditività (fino al 15%, come indicano i dati dell’Istat pub- blicati l’anno scorso)?
E si potrebbe continuare. Come dice quel famoso motto di Seneca: «Non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare». Ecco perché, nonostante la drammatica tempe- sta in cui siamo, spetta a noi cercare di governare le vele e la barca per cercare di portare il nostro Paese su un sentiero di sviluppo sostenibile. Possiamo, quindi, abbracciare i principi dell’Agenda 2030 per guidare i nostri comportamenti individuali e collettivi anche in questa situazione, e così costruire un modello più sostenibile sul piano economico, sociale e ambientale più giusto. Oppure possiamo affidarci alle stesse impostazioni culturali e politiche che hanno reso le nostre società vulnerabili e diseguali, fino alla prossima crisi. A noi spetta scegliere il futuro che vogliamo. Forse non sarà la «ter- ra promessa», da alcuni, ma la migliore per tutti tra quelle permesse.
Enrico Giovannini, 62 anni, è un economista e docente universitario. È stato ministro del Lavoro sotto il governo Letta e presidente dell’Istat. È cofondatore e portavoce di ASviS.