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Come ci ricorda un bell’articolo del più antico giornale domenicale del mondo, il britannico The Observer, le proteste brasiliane e quelle turche presentano notevoli analogie. Anche l’Ambasciatore Giulio Terzi, già Ministro degli Esteri, in una lucidissima analisi pubblicata sulla propria pagina Facebook – a onor del vero qualche giorno prima del giornale inglese – tendeva una sottile linea rossa tra le due piazze, quella alle porte dell’Ue e quella nella lontana America Latina: milioni di persone scese in piazza per un apparente pretesto – in Brasile l’aumento del costo dei biglietti dell’autobus, in Turchia l’abbattimento di alberi per costruire un centro commerciale – ma in realtà determinati – come sottolineava anche l’Economist – a far sentire la propria voce su temi ben più importanti: la corruzione dilagante, il costo della vita in crescita esponenziale, l’assottigliarsi delle garanzie sociali, la disoccupazione giovanile, lo sperpero di denaro pubblico, e – non ultimo – un eccessivo autoritarismo del Governo.
Nel passato, i movimenti di protesta erano connotati sostanzialmente da tre fattori chiave: un’istanza politica forte che includeva una richiesta di cambiamento rispetto a un modello dominante; un’organizzazione piramidale con in testa un leader riconosciuto dalla base e riconoscibile all’esterno; un’organizzazione permanente nel tempo, perlomeno fintanto che l’istanza di cambiamento non veniva recepita o in qualche modo “assorbita” dal centro del potere.
I movimenti di massa contemporanei – rileva Peter Beaumont, intelligente cronista degli esteri del gruppo The Guardian – presentano invece caratteristiche che a un’analisi più approfondita rivelano peculiarità ben differenti rispetto al passato, e che vorrei provare a codificare per praticità in cinque punti:
1) organigramma disintermediato. Non esiste in nessun caso un “leader” chiaramente identificabile, quanto invece una totale “polverizzazione” di leadership all’interno dei movimenti, con una “moltitudine di voci” a rappresentare le istanze della protesta;
2) attivazione delle masse mediante strumenti di “marketing conversazionale”. Sono i “buzz”, i passaparola, che determinano il movimento delle masse, non gli ordini delle gerarchie politiche e/o dell’opposizione. In queste dinamiche, i social media e gli strumenti di interazione 2.0 rivestono un ruolo fondamentale, disegnando però una medaglia a due faccie: rapido e libero assembramento, ma, per contro, “collegamenti deboli”, perché Twitter da solo non costruisce un’ideologia;
3) approccio “Glocal”. L’accezione che do a questo termine, ben noto agli addetti ai lavori, in questo caso afferisce alla capacità della protesta di condurre battaglie globali identificate però fortemente con specifici luoghi nello spazio locale, in uno sforzo di riscrittura della storia degli spazi pubblici in nome di un’attività di cittadinanza attiva: Piazza Tharir in Egitto, Zuccotti Park in Usa, Parco Gezi e Piazza Taskim in Turchia, etc.;
4) produzione orizzontale di istanze. Le proteste di piazza – oggi – sono produttive delle istanze che le animano, che sono frutto dell’elaborazione della folla stessa, mentre in passato le masse si riunivano per “ascoltare le proposte” dei leader della protesta ed eventualmente sostenerle con le proprie braccia e le proprie gambe. Come per il passaggio dal web 1.0, vetrina, al web 2.0, costruzione condivisa, anche in questo caso notiamo un ruolo assai più proattivo degli utenti che partecipano alla protesta;
5) orizzonte temporale limitato. I movimenti di protesta del passato erano strutturati non solo nello spazio – organigramma, uffici, addetti alle relazioni con i mass-media, etc. – ma anche nel tempo: “perduravano” fintanto che l’obiettivo non era raggiunto, eventualmente “cambiando pelle” durante il percorso. Attualmente, secondo Tati Hatuka, geografa urbana israeliana che studia le forme di protesta e le mobilitazioni di massa nel mondo occidentale, «il messaggio è l’evento stesso». Le manifestazioni di piazza non sono lo sbocco naturale di un percorso di protesta, che partendo da un’analisi dell’esistente propone poi un modello differente: ne costituiscono l’inizio. E dopo? Posto che la situazione com’è non è più accettabile, quali sono le soluzioni? È qui che può leggersi il limite di questo genere di esplosioni di disappunto: rischiano di restare fini a se stesse, e vengono quindi spesso sottovalutate dai Governi, i quali vedono come possibile soluzione il semplice “scorrere del tempo”, accompagnato a volte dalla repressione, e quindi il naturale riassorbimento della protesta con il ritorno dei manifestanti alle proprie case e alle proprie occupazioni giornaliere.
Questi i cinque punti che ci tenevo a enfatizzare. Altri colleghi potranno fare di meglio, con analisi più approfondite.
La “Marcia Mondiale per la Pace“, nata nel 2008 da una scommessa tra cittadini qualunque e sviluppata poi con oltre 300 eventi di piazza consecutivi in 98 nazioni del mondo, costituisce un buon modello – “non belligerante”, ma di proposta – che attivò milioni e milioni di persone, purtropponon adeguatamente e costruttivamente “intercettato”dalle leadership convenzionali, sempre troppo impegnate a gestire l’emergenza quotidiana e quindi incapaci di percepire i segnali deboli di crisi.
La vera sfida quindi è: chi coglierà oggi l’occasione per imparare a governare con efficacia questi movimenti di piazza? L’iniziale paura e diffidenza, da parte di governi e decisori, lascerà spazio alla volontà di una relazione sana con lo stakeholder “cittadini insoddisfatti”, così da trarre dal mutuo riconoscimento spunti utili per trasformare le istanze di protesta in idee creative per migliorare lo scenario sociale esistente?
I cittadini oggi si sentono – anche nei Paesi d’impronta non democratica – sempre più liberi di manifestare la propria opinione o, perlomeno, hanno la piena consapevolezza di “essere parte dell’equazione globale”. I politici per contro si ostinano a tentare – invano, ormai è sotto gli occhi di tutti – di tenerli fuori dalle dinamiche di decisione. Questa carenza di autenticità – vera e propria distonia tra l’esistente e il percepito – quanto potrà durare ancora prima di produrre strappi insanabili? Quando i decisori comprenderanno che assets immateriali come “fiducia”, “reputazione” e “rispetto”sono ormai parte della catena del valore, per le aziende come per le amministrazioni pubbliche?
Sempre l’Observer pubblicava una foto dalla piazza Brasiliana, uno striscione esposto dai manifestanti con scritto: «Siamo tutti social network».
E’ vero, in ragione di quanto la tecnologia web non fa che agire da “accelleratore di processo” in una società sempre più fortemente interconnessa. L’interazione, la capacità e disponibilità di creare engagement sociale con gli stakeholder eaddivenire a un modello di costruzione condivisa di contenuti, a tutti i livelli, è a mio avviso la vera keyword che farà la differenza nel rapporto tra istituzioni e cittadini, in questo e nei decenni a venire.
 

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