Reale o presunto che sia, l’allarme coronavirus ha rivelato il vero stato di salute dell’informazione italiana: positivo al sensazionalismo
Se è vero che gli amici si vedono nel momento del bisogno, dovremmo iniziare a pensarlo anche dell’informazione.
Da quando la parola coronavirus ha fatto il suo ingresso in Italia col primo caso nel Lodigiano, nell’ultima settimana abbiamo assistito alla conferma di un mestiere che ha da troppo tempo abdicato al senso di responsabilità.
Non si venga a dire che i giornalisti non hanno potuto fare bene il loro lavoro perché le zone rosse impedivano precauzionalmente l’accesso e il transito: le famose suole da consumare si possono sbucciare in molti modi, ma certamente non stando immobili nei salotti degli studi televisivi, non ribattendo ciò che circola da giorni pur di stare sul pezzo, non dando voce agli stessi nomi, non creando panico, non creando inutili collegamenti in stile Botteri coi grattacieli di Pechino alle spalle solo per rassicurare gli italiani che il servizio pubblico ha un proprio inviato in Cina e farle ripetere il già detto solo perché tanto è già pagata da contratto. Tra l’altro, la gaffe del video in cui la Botteri spiega quali precauzioni adottare contro il coronavirus mentre entra nella sede cinese della Rai commettendo una serie di errori madornali è già virale.
Una volta gli inviati incarnavano il carisma della professione perché erano in prima linea, bruciavano gli altri sul tempo e si facevano depositari di un vero – se mai sia ancora possibile parlare di verità quando si parla di giornalismo. Le informazioni miste a disinformazioni corrono ormai alla stessa velocità dei social network.
Principio di precauzione culturale, prima che sanitario
Basti pensare alla ressa degli acquisti di Amuchina o delle mascherine e alla scarsa premura nel riportare alla calma gli italiani piuttosto che gridare loro, da ogni angolo: “Allarme mascherine: esaurite ovunque”.
Il chimico professionista Dario Bressanini lo ha detto chiaro e tondo qualche giorno fa, intervistato in diretta da Edoardo Buffoni e Michela Murgia che conducono il Tg Zero di Radio Capital: esistono alternative sicure, fatte in casa, all’Amuchina. “Da quando scoppiarono le prime epidemie di Sars e di Ebola, ovviamente anche in posti in cui non ci sono farmacie né supermercati, l’OMS mise a punto una formula molto semplice: alcol etilico – per capirci io ho usato quello avanzatomi dal limoncello, alcol a 96 gradi. Per preparare un litro di questo disinfettante servono 833 millilitri di alcol etilico a cui aggiungere 42 millilitri di acqua ossigenata al 3% che non serve per disinfettare ma ha lo scopo di proteggere da eventuali spore batteriche dato che stiamo realizzando casa una preparazione liquida senza essere un’azienda farmaceutica che ha il controllo totale dell’atmosfera. Poi aggiungere 15 millilitri di glicerina, acquistabile senza problemi, visto che mettere la pelle a contatto con queste sostanze potrebbe essere irritante. Si mette tutto in un recipiente graduato e lo si porta per la parte restante fino a un litro con acqua distillata: chi non volesse comperare nemmeno quella, può semplicemente mettere a bollire la classica acqua del rubinetto e la raffredda ben coperta per evitare che si ricontamini. Si imbottiglia in un recipiente sterile e si aspettano le 72 ore consigliate dall’OMS per rendere il composto idoneo e attivo”.
La psicosi da farmacia e da supermercato è il bastone migliore per non sentirsi in colpa della propria ignoranza.
Mai come in circostanze di emergenza – reale o presunta – come questa, chi assiste alle decisioni politiche, sanitarie e sociali ha il dovere di essere il primo responsabile di se stesso applicando il principio di precauzione non solo per la propria salute fisica ma anche per quella culturale e di pensiero.
Una delle informazioni preventive più efficaci, che da nessuna altra parte ho sentito diramare, me l’ha fornita una operatrice del 118 della Regione Toscana, raggiunta telefonicamente durante il suo turno di lavoro. “Oltre a consigliare di lavarsi le mani, nessuno sta ricordando quanto sia importante disinfettare anche il cellulare che appoggiamo continuamente ovunque, senza alcune premura. Lo stesso cellulare che portiamo poi accanto alla bocca, agli occhi e al naso. Così come tenere pulita la tastiera del computer e il volante. Prestare attenzione ai nostri gesti quotidiani è in queste ore la prima forma di prevenzione”.
Coronavirus: oltre 30 milioni di italiani ne parlano sui social
La parola va data rigorosamente a chi sa decifrare i fenomeni, a chi ha il coraggio di misurarli rispetto al sentito dire dilagante.
Per questo abbiamo raggiunto Pier Luca Santoro, Project manager di DataMediaHub e tra i massimi esperti di dati su informazione e comunicazione. Stava ovviamente già monitorando la situazione e quello che ci ha fornito è il quadro più attendibile in circolazione.
“Ho pensato di concentrare la mia analisi sulla rappresentazione mediatica online da parte dei siti di news del nostro Paese sul tema del coronavirus. Per farlo sono state analizzate le citazioni online di coronavirus negli ultimi 30 giorni filtrando esclusivamente quelle in Italia, in italiano, e prodotte, appunto, sui siti di news quindi quotidiani online, magazine e agenzie di stampa.
Le citazioni sono state oltre 202 mila ed hanno coinvolto più di 30 milioni di italiani tra like, condivisioni e commenti, generando una portata teorica di un triliardo di impression, che stimo ragionevolmente in 250 miliardi di impression effettive. Una potenza di fuoco colossale che, a partire dal giorno del primo morto nel nostro Paese il 20 febbraio scorso, è cresciuta a dismisura.
In 30 giorni, TGCom24 ha prodotto la bellezza, si fa per dire, di 821 articoli; l’ANSA ne ha pubblicati addirittura 2.400; Libero oltre 1.000, solo per citarne alcuni. Ma, come mostra l’infografica, tutte le testate hanno pubblicato una quantità di articoli spropositata. Una quantità eccessiva di articoli che naturalmente difficilmente può essere accurata, a cominciare dal fatto che il manager “untore” ritornato nel lodigiano dopo un viaggio di affari in Cina in realtà non ha mai avuto il Coronavirus: cosa che anche le testate aderenti al “Trust Project” non hanno rettificato, né tantomeno si sono scusate per aver diffuso una notizia falsa, grave”.
“Naturalmente tutto questo è stato ulteriormente amplificato dai social. Un articolo di Adnkronos conta più di 302mila like e poco meno di 51mila condivisioni solo su Facebook. Molti degli articoli più condivisi sono stati relativi alle ricercatrici che hanno isolato il virus. Notizia tutta italiana che non ha avuto alcuna eco mediatica fuori dai confini nazionali, anche perché, come sappiamo, il virus era già stato isolato in precedenza da altri ricercatori non italiani.
Una infodemia che ha generato allarmismi ingiustificati oltre che gravi ricadute sull’economia nazionale. Non era certamente questo quello che ci si attendeva da chi si occupa di informazione per professione, e dunque dovrebbe operare professionalmente senza [s]cadere nel clickbait più sfrenato come avviene, purtroppo, ormai da tempo”.
L’Ordine dei giornalisti ha detto basta. Troppo tardi.
La mossa era corretta ma forse è arrivata tardi. A sottolineare lo stato di allerta nel mondo dell’informazione, Carlo Verna – a capo dell’Ordine dei giornalisti – già alcune settimane fa aveva richiamato alla serietà del mestiere ma è evidente che tutto stava già precipitando nell’allarmismo. Ha persino deciso di ricorrere a un testimonial come Piero Angela per ribadire il concetto lo scorso 26 febbraio in conferenza stampa del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti a Roma sul tema ‘Informare non allarmare: coronavirus e comportamento corretto dei giornalisti’.
“Anche per la mia storia mi sento responsabilizzato, il mio Paese va preservato dal contagio del coronavirus, ma anche da un altro contagio, quello della psicosi, che si sta diffondendo soprattutto all’estero: la paura che questo sia un Paese dove non si può più andare”, le parole del noto giornalista e divulgatore scientifico. “Non sono così allarmato dal virus, spero che rientri abbastanza velocemente con la nuova stagione e che nel frattempo si trovi un vaccino o qualche farmaco efficace. Ormai nei telegiornali non parlano quasi d’altro, ovviamente la gente è interessata ma anche la massa di notizie in sé può avere l’effetto di creare preoccupazione nelle persone. Serve buon senso. Una storia come questa del Coronavirus non l’avevo mai vista in 68 anni di lavoro”.
Quindi, a chi credere? Il giornalismo non è una fede ed è sempre bene ricordarlo. Se poi il giornalismo italiano si mette a scimmiottare lo stile dei social network ispirati a velocità, sensazionalismo, superficialità del titolo, magrezza del contenuto, economia dell’attenzione e leve percettive, la deriva è vicina.
Ogni volta che posso, spendo buone parole per l’informazione a mezzo radio da sintonizzare sui canali che fanno dell’approfondimento del pensiero il loro scopo: ci rallentano nella smania dell’illuderci informati e ci fanno frenare prima di aver capito.
Frenare.
Come la buona azione di Instagram che, nel momento in cui si digita #coronavirus per seguire il thread, apre un pop-up che invita a passare prima per il sito aggiornato dell’OMS sulle informazioni ufficiali; in alternativa, si può cliccare subito su “Vedi i post”. Una bella prova di come siamo diventati davanti al bivio del sapere. La sensazione è che ci illudiamo tutti di avere in mano le notizie mentre il giornalismo, purtroppo, sta solo giocando a nascondino.
Foto di copertina: Inews24.it