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Questa è una storia nella quale ci sono più congetture che fatti. Questa è una storia nella quale le responsabilità si rimpallano come in una partita Brasile-Argentina. Questa è una storia che ha molto da insegnare, e poco di cui essere soddisfatti. Questa è la storia dell’ultimo “caso” che ha travolto Balenciaga, con tanto di teorie cospirazioniste di fronte alle quali le scie chimiche appaiono idee tutto sommato plausibili.

I fatti

La scorsa settimana Balenciaga pubblica sul proprio sito le immagini della sua “campagna holiday”, con accessori e borse da comprare in occasione delle prossime feste natalizie. Al suo interno dei bambini sono fotografati in un ambiente casalingo, tra divani dai cuscini brandizzati, abbracciati ai loro peluche. 

L’ispirazione originale arriva dalla serie Toy Stories, un progetto che il fotografo della campagna, Gabriele Galimberti, ha all’attivo da dieci anni, e nel quale scatta, appunto, dei bambini circondati dai loro giochi, per immortalare «la gioia pura e spontanea che unisce i bambini di origini differenti, quando si parla di giochi, che si tratti di macchine in miniatura o una scimmia di peluche: l’orgoglio che mostrano è commovente, divertente, e in certi sensi, porta a riflettere». Così ha scritto Galimberti in un post Instagram del 30 agosto, a corredo di una delle foto del suo progetto. Quelle della campagna Holiday di Balenciaga dovevano originariamente seguire le stesse coordinate: qualcosa però è andato orribilmente storto. 

Le dichiarazioni

Il pubblico ha iniziato a sollevarsi quando ha notato gli orsetti ai quali si stringevano i bambini, e che erano abbigliati con chiari riferimenti al bondage (top a rete, tanga, chocker con lucchetto). Una scelta di indubbio cattivo gusto che ha causato una valanga che si è ingrossata, via via che scendeva a valle. Alle foto di questa campagna, l’ira social ha aggiunto quelle di un’altra, sempre di Balenciaga, sempre presente nell’homepage del sito, e relativa però alla collaborazione tra il brand e Adidas, nella quale le borse con le tre strisce apparivano appoggiate su una scrivania, contorniate da documenti: facendo zoom, si scopre che uno di questi è la copia di un verdetto della Corte Suprema americana, in materia di pedo-pornografia, la US vs Williams, caso del 2008. 

Nel mentre il brand, percependo la possibilità di un caso, ha cancellato entrambe le immagini delle campagne dal proprio sito, lo scorso martedì, con una story di scuse postata su Instagram. «Ci scusiamo sinceramente per qualunque offesa che la nostra campagna holiday ha potuto causare. I nostri orsacchiotti plush bear (che in realtà sono degli zainetti, ndr) non avrebbero dovuto essere fotografati con i bambini in questa campagna, che abbiamo immediatamente rimosso da tutte le nostre piattaforme». Gabriele Galimberti, responsabile solo della prima campagna con i bambini, e non della seconda con i documenti, è stato ugualmente travolto dalle ire di Twitter e di Instagram, tanto da vedersi costretto mercoledì a pubblicare una dichiarazione su Ig.

«A seguito delle centinaia di mail e messaggi di odio che ho ricevuto per le foto della campagna di Balenciaga, mi sento obbligato a rilasciare una dichiarazione. Non sono nella posizione di commentare le scelte di Balenciaga, ma devo sottolineare che non ho avuto nessuna autorizzazione o coinvolgimento nella scelta dei prodotti o dei bambini da fotografare. In quanto fotografo (Galimberti è raramente utilizzato dalle maison, essendo un professionista che collabora maggiormente con riviste come National Geographic, ndr) mi è stato richiesto soltanto di scattare una scena già pronta, secondo il mio stile. Come succede spesso negli shooting commerciali, la direzione della campagna e la scelta degli oggetti da mostrare non erano nelle mie mani. Sospetto che qualunque individuo prono alla pedofilia faccia ricerca sul web e abbia sfortunatamente accesso a immagini completamente diverse dalla mia, esplicite nel loro tremendo contenuto. Accuse del genere sono dirette contro il bersaglio sbagliato, e distraggono dal reale problema. Inoltre, non ho nessuna connessione con la foto nella quale appare un documento della corte Suprema. Quella specifica foto è stata scattata in un altro set, da altre persone, ed è stata falsamente associata ai miei lavori».

In effetti, Galimberti ha ragione nell’affermare che nella maggior parte dei casi, nessuna immagine viene pubblicata, e persino prodotta, senza l’approvazione interna del brand, che ha in questo caso peccato di sicumera nel pensare di poter condividere delle foto del genere, senza timore di scatenare delle discussioni accese.

Visto che però lo statement ufficiale del brand non è sembrato calmare le acque, la maison ha fatto posto sul suo Instagram ad un unico post pubblicato il 28 novembre. Nel comunicato Balenciaga ammette sostanzialmente la propria responsabilità e negligenza nel vigilare durante il servizio nel quale sono ritratti gli zaini a forma di orsetto. Per quanto invece riguarda la campagna che vede sulla scrivania la sentenza della Corte Suprema, il brand afferma che «tutti gli oggetti inclusi nello shooting sono stati forniti da parti terze, che hanno confermato per iscritto che questi props (come si definiscono nel linguaggio modaiolo gli oggetti usati sui set, per creare un’ambientazione, ndr) fossero finti documenti legali. Si sono poi dimostrati essere in realtà documenti reali, che probabilmente erano stati presi dal set di una serie tv drammatica»

La pubblicazione di questi documenti, prosegue la nota di Balenciaga, «è quindi il risultato di una negligenza sconsiderata, per la quale Balenciaga ha sporto denuncia. Ci prendiamo la piena responsabilità per la nostra mancanza di controllo e vigilanza rispetto a questi documenti sullo sfondo. Avremmo potuto agire diversamente. Impariamo dai nostri errori e cerchiamo di identificare le modalità nelle quali possiamo dare un contributo. Balenciaga rinnova le sue più sincere scuse per l’offesa che ha causato ed estende le scuse a tutti i talent e partner».

L’ultima ad essersi espressa sul caso è stata la musa di Demna Gvasalia, Kim Kardashian. Nella giornata del 26 novembre, in una dichiarazione passata in una storia su Instagram, l’imprenditrice digitale ha affermato: «Sono rimasta in silenzio negli scorsi giorni, non perché non fossi disgustata e oltraggiata dalle immagini della campagna di Balenciaga, ma perché volevo un’opportunità di parlare con il mio team interno per capire come sia stato possibile che tutto ciò sia successo. Come madre di quattro bambini, sono stata scossa da queste immagini disturbanti. La sicurezza dei minori deve essere garantita e qualunque tentativo di normalizzare l’abuso su di loro non dovrebbe trovare posto nella nostra società, punto. Apprezzo la rimozione della campagna e le loro scuse. Parlando con il team, credo che abbiano capito la serietà della questione e prenderanno le misure necessarie affinché non possa più capitare. Per quanto riguarda il mio futuro con Balenciaga, sto valutando il prosieguo della nostra partnership, sulla base della loro volontà nell’accettare la loro responsabilità in qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere, e sulle future azioni che mi aspetto che intraprendano, per difendere i bambini». 

Kim Kardashian (AP Photo/LaPresse)

La causa legale

A seguito del caso, nella settimana del divorzio tra Gucci e Alessandro Michele, Balenciaga ha preso provvedimenti. Il 25 novembre la maison ha intentato causa alla casa di produzione North Six e al set designer Nicholas Des Jardins, responsabili della campagna con i documenti della Corte Suprema (la causa non cita gli orsetti bondage). Nella causa, l’azienda afferma di aver subito danni d’immagine quantificabili in venticinque milioni di dollari, e che la condotta dei due imputati ha portato «membri del pubblico, compresi i media, ad associare falsamente e orribilmente Balenciaga con il ripugnante e profondamente inquietante oggetto della decisione del tribunale».

Di conseguenza, gli imputati sono responsabili nei confronti di Balenciaga per «tutti i danni derivanti da questa falsa associazione». Non è ancora chiaro quale sia la richiesta di risarcimento del brand, come riporta The fashion law, sito esperto in questioni legali applicate alla moda.

Le teorie

I toni dello scontro sono poi saliti esponenzialmente, fino a delirare, citando fantomatici collegamenti che riporterebbero addirittura al Pizza Gate, la teoria cara all’alt-right americana, utilizzata nel 2016 e poi di recente rispolverata, secondo la quale degli individui di alto profilo americano (inizialmente la teoria buttava nel mischione Hillary Clinton, per minarne la corsa alla presidenza della Repubblica, poi si è allargata a diversi esponenti del Partito Democratico) usavano riunirsi al Comet Ping Pong, pizzeria di Washington DC, per perpetrare abusi su minori. Con tanto di riti satanici a corredo e traffico minorile.

Una escalation corroborata, secondo chi la teorizza, da altri elementi presenti nella campagna scattata di recente, relativa alla prossima spring/summer 2023 con testimonial come Bella Hadid e Nicole Kidman, tra gli altri. Nella foto che vede come protagonista l’attrice Isabelle Huppert alla scrivania di un ufficio tra i grattacieli, probabilmente newyorchesi, tra i tomi impilati sul mobile, zoomando, se ne riesce a intravedere uno di Michaël Borremans, pittore belga. 

Per chi non fosse a suo agio con la pittura contemporanea, Borremans è un artista che nel 2018 – durante la mostra Fire from the Sun a Hong Kong – ha esposto dei quadri nei quali si scorgono bambini che giocano con il fuoco, in un’atmosfera priva di controllo. Sono nudi e coperti nel sangue – non loro ma di qualcun altro, visto che in alcune delle opere sono disegnati anche arti umani. Immagini sinistre, dove i bambini non appaiono però traumatizzati. A spiegarlo meglio è il sito di David Zwirner, la galleria di Hong Kong che lo ha ospitato nel 2018. 

«Dalle fattezze di cherubini nei quadri rinascimentali, i bambini sembrano allegorie della condizione umana, la loro innocenza archetipa che si scontra con le loro devianze umane. Altri dipinti nella mostra disegnano macchine misteriose, la cui presenza enigmatica suggerisce un elemento di sperimentazione scientifica». Una riflessione inquietante sullo stato della società contemporanea, ma nulla che chi ha letto Il signore delle mosche, libro seminale di William Golding, ad oggi considerato universalmente un capolavoro, non abbia già conosciuto. 

Analizzando ancora le immagini, nella stessa foto con la Huppert si intravede un altro libro: “The cremaster cycle” di Matthew Barney, definito dal New York Times come uno degli artisti americani più influenti della sua generazione (e anche, ex marito di Bjork). Si tratta di uno dei suoi lavori più imponenti, costituito da cinque lungometraggi che raccontano la crescita dell’individuo, concepito come “materia grezza”, e che si forma in una società nella quale lo sviluppo dell’identità è in continuo (e ambiguo) mutamento. 

Un discorso estremamente complesso e articolato che non si ha la presunzione di riassumere in poche righe: ai teorici di QAnon della moda è bastato però molto meno. “The cremaster cycle” è riferimento al muscolo cremastere, quello che ricopre i testicoli. Barney faceva riferimento ai primi cambiamenti fisici del corpo: nulla che avesse anche solo lontanamente a che fare con dei set designer che simpatizzano per la pedopornografia. Nella strampalata conspiracy fashion, però, questo elemento liminale è diventato ulteriore prova del tentativo di Balenciaga di normalizzare l’abuso minorile. 

Non ci dilunghiamo qui su altri inquietanti “Easter eggs” scovati da infervorati utenti di Twitter e Instagram, e quindi prova provata della assoluta veridicità del teorema. E così l’account Instagram Diet Prada, che ha cresciuto per anni i suoi follower a latte e sospetti – a volte confermati, altre modellati ad hoc per favorire un maggiore engagement sui social – redarguisce il suo pubblico, che in ansia chiede a gran voce che ci si esprima. In più, l’account nel quale ci sono Tony Liu e Lindsey Schuyler – un po’ gran visir della morale modaiola – ha pubblicato alcune stories dove invitava il proprio seguito a consultare Google nell’attesa: per vagliare e analizzare ogni teoria erano necessari tempo e attenzione, pensando forse di essere il team Spotlight del Boston Globe, i giornalisti che, nella realtà, smascherarono un sistema di abuso minorile endemico, perpetrato per anni nell’area di Boston, ad opera di preti cattolici (l’inchiesta valse loro il premio Pulitzer nel 2003).

I precedenti

Eppure, c’è stata un’era pre-social nella quale certe cose sono già successe, anche se non esistevano luoghi deputati sul web nei quali riunirsi in conclave per parlarne. Nel 2010 Carine Roitfeld, ai tempi direttrice di Vogue Paris, lasciò il giornale dove aveva militato per dieci anni. Se allora si parlò ufficialmente di separazione consensuale, i rumors del settore suggerivano un “disallineamento” tra lei e l’editore Condé Nast: una differenza di visioni a cui però l’editoriale dedicato ai regali di Natale – dal titolo “Cadeaux”, del numero di dicembre 2010 – mise la ciliegina sulla torta. 

Se l’intero numero vide la curatela di Tom Ford – insieme al quale Roitfeld mise a punto lo stile porno-chic per il quale Ford divenne amato nei suoi anni da Gucci e poi con il suo brand – lo specifico servizio ritraeva tre modelle bambine, che giocavano a vestirsi “da grandi”. Le modelle indossavano vestiti perfetti per le feste natalizie, e firmati dalle maggiori maison, ed erano fornite del make up per l’occasione. Un gioco stilistico sulla linea del politically correct, una zona nella quale la Roitfeld si è sempre sentita a suo agio e che però causò molte critiche relative alla sessualizzazione di minorenni. Critiche che, in un’era priva della penetrazione sociale odierna di Twitter e Instagram (per quanto non prive di una loro validità), finirono poi nel dimenticatoio, consentendo a Roitfeld di iniziare una seconda carriera come consulente dei brand di moda, e di rimanere nell’empireo delle più iconiche direttrici della rivista.

Cosa possiamo imparare dallo scandalo Balenciaga

L’unica lezione che si può trarre da questa faccenda, che ha assunto contorni spropositati e grotteschi, è che si possono suonare le campane a morto per il tentativo culturale messo in atto dalla moda di far coesistere l’alto e il basso, lo streetwear e le maison, il giudizio popolare con quello della critica. La complessità non può essere ridotta a un’immagine semplicistica, a un tweet di 240 battute, a una story che dura ventiquattro ore e poi scompare. 

Essere capaci di riflettere, interrogarsi e informarsi richiede più tempo di quello che serve per esprimere un giudizio sommario, e digitarlo prima di tutti gli altri. Con questo non intendiamo che il brand non sia incappato in un gigantesco errore di valutazione – sottostimando l’attenzione untuosa che circonda questi temi – nei tempi disgraziati nei quali si dà valore alle teorie del Pizza Gate. Quando, però, si gioca costantemente sul terreno di argomenti divisivi per emergere nei tempi dei social – che triturano e digeriscono qualunque riflessione nei tempi olimpici nei quali Usain Bolt correva i cento metri -, anche l’orsetto con il choker diventa pietra dello scandalo. 

Laddove, invece, si trattava di incauto cattivo gusto e di una generalizzata inerzia che trovano faticoso porsi un dubbio. Laddove, invece, in questo mercato drogato dalla necessità di rilevanza e povero (nella maggior parte dei casi) di una reale sostanza, sarebbe necessario evitare i «perché no?» (che avevano già un senso infausto quando a pronunciarli fu Bobby Kennedy nel 1968, poco prima del suo assassinio) e chiedersi semplicemente «perché?» una volta in più. 

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