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La Polizia di Stato ha scelto di prendere posizione sul tema drammatico femminicidio di Giulia Cecchettin, dimostrando apparentemente una sensibilità solo “di facciata”. L’account Instagram ufficiale ha condiviso i versi di Christina Torres Caceres, che in questi giorni sono diventati simbolo della protesta contro la violenza di genere.

“Se domani sono io, se domani non torno, distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”.  Il post della Polizia, che riprendeva le parole di Christina Torres Caceres, dichiarava: “Questi i versi di una toccante poesia (…) che ci ricordano, oggi più che mai, l’importanza di essere uniti nel combattere la violenza sulle donne. Ricordate, se #questononèamore non siete sole. Insieme per l’eliminazione della violenza di genere»”. Tuttavia, nei commenti, molte donne hanno espresso come si siano sentite isolate proprio nel momento cruciale del tentativo di denuncia. Il post si è velocemente trasformato in un clamoroso autogoal, attirando migliaia di testimonianze centrate sulla presunta trascuratezza di singoli Commissariati rispetto alla mancata ricezione di denunce di donne vittime di violenza.

Una donna ha condiviso: “Da voi mi sono sentita dire: “Venga la prossima settimana” – “Ma magari si tratta di uno scherzo!” – “Aspettiamo un’altra settimana” – “Non c’è molto da fare”. Un’altra ragazza, ha aggiunto: “Quando sono stata trascinata in un parcheggio di forza e sono venuta a denunciare mi avete apostrofato come “quella a cui hanno dato un boffetto sul sedere”. Mi avevano trascinato di peso in un parcheggio. Mi avete chiesto com’ero vestita”. E ancora, un’esperienza con un carabiniere: “Sono uscita con un carabiniere una volta, pensando che fosse single. A metà cena scopro che è sposato, con 3 figli piccoli, e insisteva per portarmi via due giorni. (…) Mi sono trovata ad aver paura, col cellulare scarico, e quei 2 km in macchina prima che mi riportasse alla mia, avevo il terrore che imboccasse un’altra strada”.

Queste testimonianze riflettono una profonda disconnessione tra le dichiarazioni pubbliche di solidarietà e la realtà vissuta dalle donne che cercano aiuto nelle istituzioni preposte alla loro protezione.

E la toppa è stata peggiore del buco, dal momento che la reazione istituzionale a questo uragano di verità scomode si è sostanziata in una fuga dalla realtà, con la cancellazione dei commenti sotto al post e dalla chiusura di ogni spazio di dialogo, con blocco della possibilità di commentare il post da parte dei cittadini.

L’approccio della Polizia di Stato nel gestire la comunicazione sul caso di Giulia Cecchettin ha rivelato una serie di gravi errori. Tentare di sfruttare l’onda emotiva di un femminicidio sui Social media rappresenta non solo un errore sotto il profilo etico, ma anche una mossa comunicativa miope.

La decisione di chiudere i commenti al post, invece di accogliere un dialogo necessario e profondo, ha trasmesso un messaggio di indifferenza, mancanza di empatia e aggressività. Questa azione non solo si è rivelata inutile, ma ha anche aggravato la situazione, alimentando una crisi di reputazione che si è estesa ad altri canali e a molti altri post, in quanto – com’era totalmente prevedibile – i cittadini hanno iniziato a commentare la vicenda sotto molti altri thread, “sporcando” tutto il wall.

In un’epoca dove la trasparenza e l’autenticità sono valutate in tutta la loro importanza, una tale mancanza di coraggio nel confrontarsi con le critiche e le esperienze dolorose condivise dal pubblico ha evidenziato una profonda incomprensione delle dinamiche di comunicazione contemporanee. Limitare la conversazione non solo ha impedito un’opportunità di ascolto e crescita, ma ha anche rafforzato la percezione di un’istituzione disconnessa dalle reali esigenze e sentimenti della comunità che dovrebbe proteggere e servire.

Anche tenendo in conto la possibilità che non tutti i commenti ostili fossero davvero genuini, molti osservatori hanno commentato che piuttosto che concentrarsi sulla creazione di post emozionali sui Social, sarebbe urgente e indispensabile che le istituzioni intraprendano azioni mirate a invertire la tendenza del diffuso machismo ancora presente al loro interno, dimostrando impegno in un percorso di formazione e sensibilizzazione, funzionale a promuovere un ambiente più inclusivo e rispettoso. Azioni concrete, come l’ulteriore revisione delle procedure di denuncia, una più intensa formazione specifica sull’approccio alle vittime di violenza di genere e la promozione di un dialogo aperto e costruttivo con la comunità, potrebbero essere passi essenziali verso un cambiamento significativo.

La lotta contro la violenza di genere non è un compito che spetta esclusivamente alle istituzioni, è una responsabilità che grava su tutti, dai singoli individui alla collettività nel suo insieme. Unire le forze in questa battaglia è essenziale per un cambiamento che deve avvenire su tutti i livelli. Sebbene una rivoluzione così radicale richieda tempo, l’azione delle Forze dell’ordine può e deve essere immediata: la capacità di ascoltare attentamente e prendere sul serio le denunce delle donne può letteralmente salvare vite. Molti saranno sicuramente gli agenti che hanno accolto le richieste di aiuto con estrema cura e attenzione, facendo una differenza fondamentale nella difesa delle donne in difficoltà, e il loro impegno va riconosciuto e valorizzato come esempio di come le forze dell’ordine possano e debbano agire in queste situazioni critiche, e questa vicenda non rende onore al loro operato.

La reputazione delle forze dell’ordine è un pilastro fondamentale nella costruzione di un rapporto di fiducia con i cittadini, che non è solo desiderabile, ma essenziale per garantire un tessuto sociale sicuro e coeso. È quindi vitale che ogni azione, specialmente nella sfera della comunicazione pubblica, sia gestita con la massima attenzione e sensibilità. Errori come quelli commessi in questa occasione possono minare rapidamente questo rapporto, e creare una barriera tra la comunità e coloro che sono incaricati di proteggerla. E questo non deve accadere.

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