Se il contenuto è promozionale, bisogna dirlo chiaramente. In Italia non esiste una norma ad hoc, mentre gli Stati Uniti hanno dato indicazioni precise
Alle aziende ormai sono più graditi dei classici testimonial. Sono gli influencer, coloro che, per via del grande seguito che hanno sui social network e sul web, sarebbero in grado di orientare le mode. Attori, modelle, vip del piccolo schermo o star ascese direttamente dalla rete all’empireo dei divi. La loro fortuna sta nella fama o nella credibilità che hanno raggiunto tra il pubblico.
Negli Stati Uniti, d’altronde, i cachet sono stellari. “Si possono pagare fino a 300mila dollari per un post per i personaggi che hanno un’audience di milioni di follower, come le Kardashian”, spiega Karim De Martino, vicepresidente dello sviluppo del business in Europa di Instabrand, società di influencer marketing nata a Los Angeles nel 2014, che nel 2016 ha chiuso l’anno con 9 milioni di dollari di fatturato.
Anche in Italia gli affari si muovono. La sola Instabrands ha visto raddoppiare i suoi ricavi lo scorso anno e ha siglato accordi con colossi della pubblicità, come la storica agenzia francese Publicis e il centro media globale GroupM.
La nuova industria dell’influencer marketing, tuttavia, ha aperto questioni legali. Perché se le aziende corteggiano queste star della rete per far conoscere al pubblico i loro prodotti, quanto sono sinceri e spontanei i contenuti web degli influencer? L’influencer indossa quella specifica felpa perché la trova veramente elegante o perché ha ricevuto soldi per farlo? Soggiorna in quel dato albergo perché l’accoglienza è con i guanti bianchi o perché l’ospitalità è offerta per farsi pubblicità? La crema che si spalma in viso ha proprietà eccezionali o è solo sponsorizzata dietro cachet? In sostanza, quanto è attendibile per il consumatore la sua raccomandazione?
Gli Stati Uniti, culla dei social network e, di conseguenza, degli influencer, hanno anche messo a punto le prime regole del settore. Nel 2009 la Federal Trade Commission, l’agenzia indipendente che si occupa della difesa dei consumatori, ha stilato le prime raccomandazioni e l’anno scorso ha prodotto un manuale sull’argomento.
Hashtag come #sponsored, #sp o #spon o frasi rituali come “thanks to”non sono più sufficienti, ma è doveroso far capire che l’azienda ha consegnato il prodotto all’influencer o lo ha pagato. Su Instagram l’agenzia statunitense pretende che la società sponsor sia taggata nel post e bene in evidenza e che hashtag come #ad, #adv o #sponsored non siano annegati nella massa, ma risultino tra i primi e leggibili per l’utente.
Il consumatore deve essere messo nelle condizioni di capire, senza troppi sforzi, che quel contenuto è frutto di un accordo commerciale tra azienda e influencer e ogni accorgimento che può rendere più trasparente questo rapporto è ben accetto.
In Italia non esiste una norma specifica. Si occupano della materia l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria (Iap), che ha il compito di far rispettare il codice pubblicitario nazionale (compilato e promosso dalle stesse aziende che lo usano), e il codice del consumo. Nel 2016 Iap ha promosso una Digital chart per orientare i propri associati alle regole da rispettare sul web. “Il fine promozionale del commento o dell’opinione espressa da celebrity/influencer/blogger, qualora non sia già chiaramente riconoscibile dal contesto, deve essere reso noto all’utente con mezzi idonei”, si legge nel documento. Come? Inserendo hashtag abbinati alla campagna pubblicitaria in corso, link al sito internet dell’azienda o taggando il profilo social della società nel post.
“L’articolo 23 del Codice del consumo – spiega Paolo Peroni, socio dello studio legale Rödl & Partner – considera illecita la condotta consistente nel dichiarare o lasciare intendere, contrariamente al vero, che un soggetto stia agendo quale consumatore e non nell’ambito di un’attività remunerata. Volente o nolente, il blogger che agisce quale testimonial di un brand è tenuto a rivelarlo ai propri follower”.
“È un terreno scivoloso – prosegue il legale – perché la forma di remunerazione non consiste solo nella corresponsione di un compenso, ma anche con forme di incentivo come il prestito di una borsa o l’invito a una manifestazione”. Se il messaggio non è chiaro, si rischiano sanzioni fino a un milione di euro per pubblicità occulta, a carico sia delle aziende sia degli influencer.
“Ritengo opportuno che l’Italia si doti di regole strutturate per blogger e influencer” risponde via mail a Wired Manuela Vitulli, che in rete si è fatta conoscere con il blog Pensieri in viaggio e ora ha 43mila follower su Instagram e 12mila 900 su Twitter. Per Vitulli un regolamento “non riguarda solamente i post sponsorizzati, ma anche il fatto che oggigiorno in Italia la nostra figura non è (ancora) ben definita dai codici di classificazione delle attività economiche. Credo dunque che ci sia bisogno di regolamentare un po’ tutto iniziando a considerare la nostra una vera realtà professionale”.
“Spesso pubblico dei post in cui menziono dei prodotti. A volte questi prodotti vengono citati da me spontaneamente, perché acquistati da me in prima persona. Altre volte, invece, questi prodotti vengono mostrati in seguito ad accordi con brand (o agenzie per conto del brand)”, spiega l’influencer. “Purtroppo in Italia non ci sono ancora delle precise linee guida – ammette la travel blogger -, quindi non sempre ci viene richiesto di inserire i tag #sponsored o #ad, come funziona in America. Va da sé che la linea tra un post sponsorizzato ed un post spontaneo in cui viene mostrato un prodotto si fa molto sottile, quasi invisibile”.
Per Maria Rosaria Rizzo, fondatrice del blog di moda La Coquette italienne, “il cambiamento tecnologico è semplicemente più veloce della capacità che i governi hanno nel regolamentarlo e in questo modo nascono delle zone grigie. In ogni caso non credo che ci sia questa grande necessità di regole strutturate, perlomeno fino a quando non sarà chiara la figura del “web influencer” e che cosa il proprio profilo rappresenti dal punto di vista legale. L’influencer al momento ha semplicemente sostituito la figura delle celebrities di un tempo“. La Rizzo precisa che il 90% dei suoi contenuti sono editoriali e che la maggior parte dei suoi introiti deriva dalle vendite online, mentre dall’attività di influencer ha ricavato meno di 100mila euro in un anno.
Mediakix ha calcolato che l’anno scorso su Instagram sono circolati 9,7 milioni post pubblicitari, ossia con hashtag come #ad, #sponsored, #spon o #sp. E quest’anno stima che aumenteranno a 14,5 milioni fino a 32,3 milioni nel 2019. Siamo di fronte a una valanga di contenuti sponsorizzati, più o meno chiari. Per questo si studiano regole precise sul settore.
“L’influencer funziona perché coinvolge da vicino il pubblico – approfondisce De Martino – Sembra un amico, supera gli ad block degli utenti e la cecità verso i tradizionali banner pubblicitari. Questi che oggi sono gli influencer, un tempo erano i comici di Zelig. La loro bravura è saper seguire l’evoluzione dei canali di comunicazione e dei social”. Di recente De Martino ha lavorato a un progetto della casa automobilistica Lexus con l’attore Jude Law. E il budget arrivava dal capitolo influencer.
Aggiornamento 27 aprile, ore 15.03: L’Unione nazionale consumatori ha presentato un esposto all’Antitrust per accertare la natura delle foto di vip con prodotti o marchi ben visibili e “la legittimità di questa sorta di product placement camuffato sui social network“. “L’obiettivo dell’associazione – si legge in una nota – è quello di ottenere maggiore trasparenza: la proposta è che, d’ora in poi, accanto alla foto, compaia una didascalia di accompagnamento che informi correttamente il fan del carattere promozionale del messaggio, nel rispetto del Codice del Consumo, che all’art. 22 prescrive di indicare l’intento commerciale di una pratica promozionale“.