Il mondo lo salverà TikTok
L’attivismo della Gen Z si muove nei video di 15 secondi
L’attivismo della Gen Z si muove nei video di 15 secondi
Per la Generazione Z, il personale è politico. E le questioni politiche rappresentano questioni di identità esistenziale: dal cambiamento climatico, alla violenza armata, ai diritti LGBTQ+ e ora una pandemia globale, solo per citarne alcune. Nel bel mezzo del movimento Black Lives Matter, TikTok è emerso come un canale inaspettato per fare dichiarazioni e prendere posizione.
Ma è il contenuto politico ad emergere dai social e a originare le azioni conseguenti o è solo l’ennesima versione di quell’attivismo performativo da cliché, incapace di uscire dal suo stesso narcisismo?
La Gen Z è impegnata e disposta a mettere in atto un cambiamento tangibile, forse a causa (o nonostante?) una politica divisiva, quella americana in primis, ma non solo. Sono tanti, e sono molto più propensi delle loro controparti più anziane a sostenere cause, a dire: ci siamo e sentiamo l’urgenza di fare la nostra parte, che voi lo vogliate o meno.
Mentre il COVID-19 ha rappresentato la questione sociale più importante per tutti i gruppi di età, un’eguale proporzione di Gen-Zers ha messo tra le proprie priorità anche il Black Lives Matter Movement. Dagli scioperi per il clima alla Parkland March for Our Lives, il vernacolo politico della Gen Z è profondamente e unicamente pervaso da hashtag, brevi testi rap e video in streaming dal vivo. Per la Gen Z, la politica personale è inestricabile dal panorama sociale che li inscrive.
Si parla, in famiglia e nelle cerchie sociali prossime. E si parla fuori, con e nel mondo, usando mezzi e strumenti diversi, di cui la percezione è che non siano diversi per nulla. È la stessa voce che si muove, che attraversa i muri risibili dei confini di ciò che percepiamo (noi, mica loro) come online e offline. TikTok, come Instagram, emerge quindi in questo panorama come catalizzatore, grazie soprattutto alla familiarità che la fascia 13-24 anni ha con il medium. Circa il 98% di loro negli USA ha visto o prodotto almeno un TikTok.
Sono stati dati per scontati, si sono sentiti sottovalutati, sono cresciuti in un clima di recessione economica e di disillusione a più livelli. E proprio per questo, probabilmente, l’attivismo sulla piattaforma sta portando a cambiamenti reali, accelerando il rinnovamento sociale e politico in modo eccezionalmente pop. È sempre la stessa voce: quella di una generazione dolorosamente consapevole, la cui esistenza stessa sembra politica.
Ma ancora più consequenziale è il modo in cui gli utenti di TikTok hanno maggiori probabilità di agire in base alle proprie convinzioni politiche e\o etiche. Il risultato più concreto e visibile dei TikTokers è arrivato a giugno scorso, durante il Tulsa Rally di Donald Trump.
Long story short: Trump, durante la campagna elettorale promette bagni di folla a Tulsa, in una location che può contenere 19.000 persone e molte, molte di più all’esterno. Brad Parscale, il presidente della campagna per la rielezione di Trump, racconta su Twitter che la campagna ha ricevuto più di un milione di richieste di biglietti, ma i giornalisti notano che la partecipazione è stata incredibilmente inferiore al previsto.
Gli organizzatori vengono poi anche costretti ad annullare gli eventi pianificati al di fuori del raduno per una folla in eccesso prevista che- ops!- non si è materializzata. Cosa è successo? È successo che centinaia di migliaia di adolescenti in tutto il mondo si sono coalizzati sulle piattaforme, hanno prodotto contenuti per alzare l’awareness su determinati temi. Hanno prenotato i biglietti per l’evento –in massa– e hanno sabotato l’evento stesso non presentandosi. È successo che coloro che non hanno ancora l’età legale per esprimere il proprio voto hanno deciso di votare lo stesso, adottando una delle modalità con cui possono esprimere la loro presa di posizione, la loro visione e la loro forza.
Quindi, anche se potrebbe non sembrare il luogo più consono o ovvio atto a portare un cambiamento sociale presumo che la natura spensierata dell’app consenta alla Gen Z di essere attivista senza sentire tutto il peso dell’attivismo. Esistono infatti due principali meccanismi che rendono i social media particolarmente influenti nell’attivismo digitale: innanzitutto il ruolo decisionale degli influencer e le dimensioni delle loro ampie reti di pubblico. In secondo luogo, il fenomeno dell’omofilia, che ci spinge a intrecciare il pensiero e a interagire con persone che condividono con noi valori e sistemi.
Insieme, questi meccanismi forniscono un vasto pubblico sia agli influencer che ai loro follower che vivono in reti online densamente connesse. Dal momento in cui un contenuto (un meme, un hashtag o un video) diventa virale, anche la condivisione passiva può trasformarsi in trasmissione attiva di un’idea.
Ciò che è successo a Tulsa ha contribuito a cementare una certa narrativa. Proprio come i Millennial sono stati ingiustamente soprannominati “la generazione amante dell’avocado toast”, incapaci di convogliare energie su alcunché di importante, così la Gen Z restituisce un ritratto parimenti riduttivo: una generazione sardonica, nichilista, che porta avanti battaglie etiche affidandosi a potenti network di vigilantes sui social media, che trolla in nome della giustizia sociale. Sembra un pensiero confortante, in tempi come questi ma la realtà è molto più complessa.
The Kids Aren’t Alright, gridavano più di vent’anni fa gli Offspring. E credo davvero che non stiano bene nemmeno oggi perché particolarmente saturi di una serie di faccende. Sono saturi e disillusi dei governi e delle istituzioni, il cui arco morale si piega verso corruzione, discriminazione, stagnazione. Disillusi dal percepirsi come outsider decisionali e come perfetti target commerciali. Il modo in cui questa disillusione si riverserà ed avrà ruolo attivo nella politica, nella cultura e nella società è ancora sconosciuto.
L’alienazione però non un’esperienza esclusiva della Gen Z: è semplicemente il contesto generale come generale è stata la pandemia, probabilmente la più grande frattura dei loro anni formativi. Quale sarà il risultato di questo forzato allontanamento gli uni dagli altri?
Se ci spostiamo di un passo indietro per avere una visione d’insieme ci accorgiamo che le cause attorno alle quali gli adolescenti si sono radunati sono più varie di quanto suggerirebbero i recenti fatti di Tulsa. Il movimento Black Lives Matter, il Climate Change, il #MeToo e il femminismo della quarta ondata sono solo alcuni temi che ci raccontano una storia che nasce, cresce e si nutre di ingiustizia. Ed ecco allora spuntare contenuti che si prefiggono di alleviare un po’ di quella sofferenza, video da far girare in background mentre ti senti in pericolo, aiuti digitali preziosi che magari arrivano dall’altra parte del mondo e però dicono- di nuovo- ci sono, ci siamo.
Ci siamo e ci importa. Comprendiamo in modo innato le dinamiche degli ecosistemi informativi, sappiamo come attrarre altri occhi e altre menti, perché esercitare attenzione è per noi sia strumento che arma. Come per voi, molte delle nostre interazioni sociali più consequenziali sono governate da algoritmi; a differenza vostra però, siamo eccezionalmente abili nel decodificarli e nel manipolarli.
Quando abilità come queste vengono utilizzate contro l’ingiustizia è un risultato da celebrare da parte di tutti, soprattutto da coloro che screditano e sottostimano il potere di una certa rabbia. Sono passati più di vent’anni da quando è uscito The Kids Aren’t Alright. Le voci sono cambiate: sono più forti, più vicine, più coese, sono ovunque.
E sono consapevoli.