Le piattaforme social hanno aperto porte che hanno cambiato i rapporti tra aziende e clienti. E sono le persone, oggi, a dettare le regole della relazione. Paolo Iabichino, pubblicitario creativo e Comunicatore dell’anno 2018, sarà tra i protagonisti, con il suo keynote speech, dell’edizione 2019 de #ilCliente, l’evento del 15, 16 e 17 aprile in scena a Milano. Ecco perché, per lui, la strada della relazione tra banche e clienti porta a un futuro semplice
Il mestiere del pubblicitario è – pur variando nelle epoche e nei contesti – riuscire a rendere in un messaggio semplice la complessità di un prodotto, di un servizio, di un’intera azienda. Un messaggio che accenda non solo un interesse (e questo sarebbe già metà del lavoro svolto), ma possibilmente – e soprattutto oggi – che inneschi una relazione. Cosa che non è semplice per niente. Proprio per questo, per la decennale esperienza maturata in colossi della comunicazione pubblicitaria nel far nascere relazioni tra aziende e persone-clienti, e nel riuscire a farlo con una complessa semplicità, sarà Paolo Iabichino a tenere il 15 aprile il keynote speech nella sessione plenaria di apertura dell’edizione 2019 de #ilCliente, l’evento promosso dall’ABI in scena a Milano il prossimo 15, 16 e17 aprile, che mette al centro della riflessione i modelli innovativi di relazione di banche, assicurazioni e mondo finanziario con la clientela retail (vai al sito dell’evento).
Dagli esordi come copywriter nel 1990 al ruolo di chief creative officer della branch italiana di Ogilvy & Mather (parte del colosso Wpp), passando per diversi libri che rimettono costantemente in discussione regole e idee della comunicazione (l’ultimo è Scripta volant. Un nuovo alfabeto per scrivere (e leggere) la pubblicità oggi, edito da Codice Edizioni) e il premio come Comunicatore dell’anno 2018, nel suo lavoro e nei suoi numerosi speech e interviste la “preoccupazione” di Iabichino per la relazione tra marca e cliente è da sempre centrale: «Ogni momento di contatto è un momento di relazione», sostiene: «pensiamo che la relazione si costruisca solo sulle piattaforme? Che sia solo digitale? È anche digitale, ma la relazione è tutto, è uno spazio fisico, è un evento, è una scatola e poi è anche digitale». Stabilire e far vivere una relazione così complessa, non pare una cosa semplice. Partiamo da qui.
Un futuro semplice” è il titolo guida di questa edizione de #ilCliente. Questa semplicità di relazione è una previsione fondata, oppure è ancora una speranza?
Premetto che, da qualche anno, quando sento citare la parola “futuro” mi insospettisco. È da sempre citato come luogo dell’attesa, come un qualcosa che è “domani”, che viene sventolato ma posto sempre un passo più in là, e a furia di citarlo ha via via perso consistenza. Ma se c’è un momento in cui ha senso di parlare di futuro, e appunto di “futuro semplice”, è proprio questo che stiamo vivendo. Il futuro è semplice nella misura in cui finalmente si è presentato alla nostra porta. È corretto oggi parlare di semplicità perché stiamo toccando con mano come tutto ciò che consideravamo distopico fino a pochi anni o mesi fa in realtà non è illusione o fantasia. Ma sono tecnologie e soluzioni entrate nella realtà e perfettamente alla nostra portata, che ci consentono davvero di dar vita a nuove relazioni e nuove dialettiche con i nostri interlocutori di riferimento, e quindi anche con i nostri clienti. Abbiamo messo da parte quel timore che fino a poco fa la parola tecnologia associata a futuro faceva scattare e ci siamo accorti che l’innovazione può essere implementata nella quotidianità delle persone, delle aziende, con uno sforzo tutto sommato misurato. Un approccio al cliente basato su ecosistemi di tipo digitale migliora le performance e migliora la relazione.
Pare però che, a questo abbraccio con il futuro-presente tecnologico, le persone siano arrivati in molti casi prima delle aziende e che queste ultime si siano trovate quasi a rincorrere questa relazione.
Ahimè, è andata esattamente così. E per fare un passo avanti le aziende non devono concentrarsi più solo sul dire, sul comunicare, ma devono saper ascoltare: ascoltare le istanze dei clienti e soprattutto le loro aspettative. Oggi il set di aspettative dei nostri clienti non lo fanno più i competitor di settore, ma le piattaforme che si chiamano Google, Spotify, Netflix: i modelli di relazione con il cliente devono essere misurati rispetto a questi soggetti. Se ci fermiamo a fare il benchmark di relazione con chi sta nella nostra stessa industria, facciamo uno sforzo decisamente parziale. Dobbiamo essere convinti che la partita delle aspettative relazionali tra azienda e cliente oggi viene giocata su altri playground, rispetto ad altre logiche. Se ormai per me è scontato ricevere un libro acquistato online in 24 ore, non posso più accettare di ricevere una carta di credito in 10 giorni.
Il nuovo playground si è affermato in maniera talmente rapida che ha messo in discussione le modalità di business tradizionali. Stando al mondo bancario, vede un dinamismo in atto?
C’è un’attenzione risvegliata, che è da salutare con ottimismo. Ma per acquisire e padroneggiare quell’agilità che le nuove attese dei clienti impone, e che è un must per tutti i player, vedo ancora molto lavoro da fare. Di sicuro le banche, rispetto a chi vende libri e film online, hanno vincoli e regole molto più complesse. Per questo, al di là degli sforzi che può fare ogni singola azienda per attuare quel “futuro semplice” che tutti stanno cercando di costruire, bisogna fare una riflessione di sistema, bisogna agire appunto sul contesto delle regole. Come strutturare set di regole che snelliscano e rendano semplice il mestiere delle banche, continuando a tutelare le persone-clienti?
Così come “futuro”, c’è un altro grande classico giro di parole talmente usato che finisce per insospettire: “il cliente al centro”…
Uffa, basta (sbuffa, ridendo). Quando si dice “il cliente al centro”, penso al ritardo che è stato accumulato tra questa terminologia e una riflessione seria su cosa significhi. Oggi però qualcosa è cambiato. Si continua a usare a sproposito queste parole, ma finalmente noto che tante aziende stanno davvero implementando sistemi e soprattutto visioni che danno centralità alle persone e alle loro attese. Devo dire che non si tratta di una questione da poco, anzi: la centralità del cliente ha un impatto fortissimo sull’azienda, non significa solo cambiare le modalità di servizio. Significa proprio cambiare la modalità di relazione lungo tutta la catena di attività. Oggi se ti impegni a mettere il cliente al centro, poi non si torna più indietro. Il cliente finisce davvero al centro del rapporto.
Quali sono le regole di questa relazione?
Molto banalmente, nel momento in cui ci mettiamo in relazione con il cliente – e lo facciamo principalmente attraverso le piattaforme social – non possiamo più escluderlo da nessuna strategia di marca. È una relazione estremamente impegnativa, insomma, e l’azienda deve esserne consapevole. Il cliente è al centro non più perché ogni tanto ci ricordiamo di lui, ma perché è letteralmente entrato in casa nostra. Quando oggi un’azienda apre una pagina Facebook, si mette su Instagram, apre una porta: è il cliente che, entrando in quella porta, si mette al centro di sua spontanea volontà, decide di mettersi in relazione con la marca su un piano dialettico completamente diverso rispetto al passato. Oggi infatti parliamo di Social Crm: le aziende, banche comprese, che fanno bene questo lavoro riescono per esempio a offrire servizi di customer relationship management anche attraverso bot di intelligenza artificiale nativi su Facebook. Questo significa mettere il cliente al centro. Ed è impegnativo, sotto molti punti di vista.
Un tempo le aziende parlavano con il cliente attraverso la comunicazione pubblicitaria. Nell’epoca della disintermediazione, questo livello è saltato? Da “vecchio” pubblicitario, cosa dice?
Io dico di no. La sana e vecchia pubblicità continua a esistere e a far bene il suo lavoro, che è principalmente quello di far conoscere e dare notorietà a un marchio. È vero che poi oggi esistono armi nuove che dimostrano la loro efficacia in diverse fasi del percorso di relazione tra azienda e cliente: sia nel pre-vendita sia, soprattutto, nel post-vendita, perché possono dare valore aggiunto a un rapporto più stretto e diretto con il cliente, cosa che la vecchia pubblicità non può fare. La pubblicità però continua a fare il suo mestiere di “segnalazione d’esistenza”, di messaggio di prodotto. Poi nella comunicazione di valore sono altri gli strumenti che entrano in gioco
I nuovi strumenti di comunicazione, social in testa, hanno in qualche modo anche trasformato la reazione delle persone con la comunicazione di marca. Quelli con cui oggi parlano le aziende, sono clienti più emozionali o più razionali?
Nell’ambito bancario il cliente è un animale assolutamente razionale. Quando ci si rapporta con l’azienda che gestirà il tuo denaro e una gran massa di informazioni sensibili che ti riguardano, c’è poco da essere emozionali. Per questo, la banca deve trovare – anche sui nuovi canali di relazione – un linguaggio adeguato per essere razionale e rassicurante. Che, lo ammetto, rispetto a quelle che sono le tipologie di linguaggio vincenti sui social, è una sfida complessa, perché questi canali si muovono attraverso codici di comunicazione empatici, nel bene e nel male. Altra cosa è quando una banca vuole agire in chiave emozionale per trasferire per esempio un set di valori: allora si può approcciare al linguaggio e alla comunicazione in maniera più sottile e più empatica.