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Risale al 2005 la pubblicazione da parte della RAI (ERI) del contributo di Toni Muzi Falconi al primo atlante italiano della comunicazione sociale, cosa è cambiato?  La rilettura, a dieci anni di distanza, rimane ancora di forte attualità.
In genere considero di cattivo gusto pubblicare a dieci anni di distanza un testo, come se intendessi dimostrare che oggi nulla è cambiato e che se avevo ragione allora, a maggior ragione, ho ragione anche oggi. Nulla di più lontano dalle mie intenzioni. Mentirebbe sapendo di mentire chi sostenesse che nulla è cambiato nella comunicazione sociale nell’ultimo decennio. E’ cambiato tutto (soggetti, canali, piattaforme, strumenti, tempi… quasi tutto, salvo i vizi culturali). Mi è capitato di rileggere il testo qualche giorno fa inviatomi da una amica che l’aveva conservato e che mi ha scritto: “Caro Toni, forse ricordi questo articolo di dieci anni fa. Te lo rimando perché ti so disordinato e forse neppure ti ricordi di averlo scritto. Io invece l’ho conservato e me lo sono tenuto stretto perché, al di là dei tuoi usuali paradossi, mi è stato da guida e di ispirazione in questo decennio e ritengo che, pur tenendo conto dei tanti cambiamenti, la sua struttura culturale e informativa possa essere ancora di guida e ispirazione per tanti giovani. Grazie”. L’autrice, che preferisce non essere citata, è oggi responsabile esecutiva (CEO) di una delle migliori e più reputate organizzazioni non profit in Italia. Me lo sono riletto e certamente oggi scriverei cose diverse, ma penso che tutto sommato una lettura possa essere utile, e non solo ai giovani.


 
Dieci anni fa (2005), nel primo rapporto sulla comunicazione sociale in Italia edito dalla Rai, scrissi:
Se per comunicazione sociale (1) intendiamo (anche) le campagne di informazione di massa realizzate da amministrazioni e organizzazioni pubbliche, orientate per lo più a modificare opinioni, atteggiamenti, decisioni e comportamenti dei destinatari, possiamo tranquillamente affermare che (con le dovute eccezioni che confermano la regola) si tratta in larga parte di attività che oggi potremmo definire socialmente irresponsabili poiché:

  • drenano inutilmente risorse economiche pubbliche
  • sono prive di indicatori di valutazione e non sono soggette a dimostrazione empirica di efficacia
  • contribuiscono ad aggravare l’inquinamento già elevato dell’ambiente comunicativo (2).

Ecco due fra le principali ragioni dell’inefficacia di questo modo di fare comunicazione sociale (meglio sarebbe dire pubblicità):

  • un messaggio è efficace (contribuisce cioè a modificare opinione, atteggiamento, decisione e comportamento del destinatario) quando la fonte è credibile nell’ambito tematico richiamato dal messaggio: circostanzadavvero rara per i soggetti che fanno comunicazione sociale. Per capirci, non sarà credibile se la campagna contro il fumo la fanno i medici, categoria professionale a maggior tasso di tabagismo o lo Stato, che ricava il 70% circa del valore di ciascun pacchetto di sigarette venduto e finanzia la coltivazione del tabacco;
  • si tratta quasi sempre di campagne imperniate su messaggi che usano comunicazione a e non con. Uni direzionalità e asimmetria – anche per la crescente saturazione indotta dall’inquinamento comunicativo – richiedono, peraltro, risorse sempre più ingenti per attirare l’attenzione dei destinatari e normalmente queste risorse non ci sono.

Per molti anni e in molte, troppe circostanze, governi, enti territoriali, associazioni hanno ritenuto utile tematizzare erga omnes, nella perversa convinzione che la tambureggiante ripetizione avrebbe alla fine giovato: da qui le ripetute e inutili (quando non dannose) campagne contro il fumo, la droga, l’alcool, la guida pericolosa, i rifiuti, la raccolta differenziata, l’obesità … tutte iniziative da stato etico con obiettivi decisi a priori che – nella migliore delle ipotesi e secondo la migliore e antica teoria del marketing – “ascoltano” le aspettative del destinatario soltanto per meglio confezionare il messaggio unilaterale e persuasivo da inviare.
Da questo punto di vista, la cosa più stupefacente è lo sguardo talvolta interrogativo di operatori di marketing e di pubblicitari, come a dire: ma se non si ascoltano i destinatari per sapere come meglio confezionare il messaggio, che si ascoltano a fare?
Domanda pienamente legittima, ma che la dice lunga sul livello raggiunto di pervasività di una cultura della comunicazione diretta a e non con.
Sfera pubblica, relazioni pubbliche e comunicazione sociale
Nelle lingue germaniche e slave il termine relazioni pubbliche indica relazioni con il pubblico, ma per alcuni studiosi europei (3), il termine pubblico detiene valenze diverse rispetto a quelle implicite nell’espressione anglosassone public relationsintese come relationships with publics. Infatti, la corretta espressione tedesca è offentlichkeitsarbeit, che letteralmente vuol dire “lavoro pubblico”, declinato come “lavorare in pubblico, con il pubblico e per il pubblico” (4).
È una questione non solo linguistica, ma soprattutto culturale. Offentlichkeit in realtà è sfera pubblica, e la sua equiparazione al termine pubblico ne fa perdere una essenziale dimensione analitica, come affermano il danese Jensen (5), prima ancora il tedesco Oeckl (6): una dimensione riferita a valori ritenuti pubblicamente rilevanti.
Il ragionamento sottostante è che in Europa le relazioni pubbliche non trattano solo di relazioni con i diversi pubblici, ma sviluppano questi rapporti in pubblico nel pubblico e per il pubblico. In più, come hanno teorizzato Ronnenberger e Rohl (7), le relazioni pubbliche vanno anche misurate in base alla qualità e alla quantità di sfera pubblica che contribuiscono a produrre.
Si tratta di indicatori che, a loro volta, hanno a che fare con il concetto di Offentliche Meinung, che si traduce come “opinione pubblica”, intesa come figura di autorità politica, sviluppatasi nel diciannovesimo secolo in opposizione alla dominazione monarchica, e che ha costituito il fondamento per la creazione delle democrazie (Habermas) (8), e non come aggregazione di opinioni individuali emergente dagli studi di Lippmann (9) o dai sondaggi di opinione (Price) (10).
Le relazioni pubbliche dunque, secondo gli studiosi europei, svolgerebbero una funzione democratica analoga al giornalismo poiché entrambi contribuiscono alla libera diffusione di informazioni e allo sviluppo della sfera pubblica sia nella sua quantità (quante persone sono coinvolte nella vita pubblica?) sia nella sua qualità (qual è il livello al quale discutiamo di argomenti di interesse comune?).
Se vogliamo riferirci alla situazione italiana, si potrebbe tracciare un parallelo fra quest’accezione di sfera pubblica e quella dicapitale sociale.
Lo stretto rapporto fra relazioni pubbliche e sfera pubblica porta a focalizzare l’attenzione sul concetto di legittimità sociale, un concetto centrale alle relazioni pubbliche. In realtà, se la legittimità sociale viene considerata dal punto di vista dell’organizzazione e quindi della teoria sistemica (11) delle relazioni pubbliche, è possibile affermare che quest’apparente specificità europea – pur legittimata dalla stereotipata e sempre meno convincente distinzione fra un’anglosassoneshareholder society e una stakeholder society di matrice europea – proprio non ha ragione di essere, a maggior ragione se ci si riferisce ai concetti come la license to operate e, ancor di più, la social responsibility delle organizzazioni che, per quanti sforzi facciano gli studiosi europei, derivano entrambi dalla cultura anglosassone, così come anche la piattaforma politica -non casualmente definita stakeholder society – con la quale Tony Blair ha vinto per due volte le elezioni nel Regno Unito.
Sfera pubblica, relazioni pubbliche e comunicazione del settore pubblico e privato
È peraltro sicuro che nei paesi anglosassoni, per tutto il secolo scorso, le relazioni pubbliche hanno privilegiato il settore privato (Olaski) (12), ma questo non vuol dire che non abbiano contribuito a produrre quantità e qualità di sfera pubblica. Infatti, il parallelo: settore pubblico dell’economia =  produzione di sfera pubblica e settore privato dell’economia = produzione di sfera privata, rappresenta un equivoco inaccettabile e denota una visione molto semplificata, quando non semplicistica, della realtà.
In sostanza, l’accentuazione di una specificità europea delle relazioni pubbliche legata alla produzione di sfera pubblica è una argomentazione forse buona per aggregare una comunità scientifica e professionale un po’ dispersa del vecchio continente e stringerla intorno a una pretesa distinzione da quella anglosassone, ma è poco fondata nei fatti.
Basti ricordare che il presidente Wilson, eletto su una piattaforma non interventista, ha potuto decidere l’intervento americano nella prima guerra mondiale soltanto a seguito degli ottimi risultati di un’articolata e capillare iniziativa di comunicazione (promossa dal Governo, ma con ampi apporti del settore privato) durata un anno e promossa dal CPI (Committee for Public Information) con il supporto professionale di alcuni dei migliori relatori pubblici dell’epoca (George Creel, Carl Byor, Edward Bernays).
Il progetto si imperniava sui four minute men, 250 mila volontari di ogni ceto e livello sociale, appositamente formati, che coglievano ogni occasione per trasferire a vicini, commensali, co-spettatori di teatro o cinema, collaboratori, amici ecc., e in quattro minuti, convincenti argomentazioni sulle ragioni di un intervento ormai indilazionabile (13).
Oggi il modello four minute men, opportunamente adattato alle varie circostanze e agli obiettivi fissati, viene adottato dalle migliori organizzazioni sociali, pubbliche e private perché ritenuto capace di mobilitare i pubblici influenti intorno a finalità e traguardi condivisi, producendo così un formato assai efficace di comunicazione sociale nel senso di produzione di quantità e di qualità di sfera pubblica.
Per non parlare del New Deal del presidente Roosevelt, il cui successo fu in buona parte da attribuire allo sforzo capillare di rivisitazione e rivalutazione narrativo/comunicativa della vita agra e di main street America; o del Piano Marshall, attuato nella seconda metà degli anni quaranta e primi cinquanta; oppure ancora della pervasiva attività, si direbbe oggi di “esportazione” dei valori dell’american way of life nei Paesi europei, realizzata dal United States Information Service (Usis), e della quale l’Italia è certamente stata soggetto stabile dal 1943 fino almeno ai primi anni ’70.
Detto questo, è certo verosimile che in Europa (e sicuramente in Italia) i relatori pubblici che operano nel settore pubblico sono più numerosi di quelli che operano nel settore privato, così com’è altrettanto verosimile che le risorse complessive investite per comunicare dal settore pubblico europeo (e sicuramente in Italia) sono superiori di quelle investite dal settore privato.
Ma questa non pare essere una ragione sufficiente per sostenere il principio generale che la comunicazione del settore pubblico contribuisce ad accrescere qualità e quantità della nostra sfera pubblica (o, se si preferisce, del nostro capitale sociale) più di quanto non faccia la comunicazione del settore privato.
Un possibile approccio alla comunicazione capace di incrementare la sfera pubblica
L’organizzazione (privata, pubblica o sociale) che si pone una finalità sociale – nel senso di voler contribuire ad arricchire la “sfera pubblica” – farebbe meglio, per prima cosa, a distinguere nettamente fra finalità e obiettivi:

  • finalità sono le ragioni che la tengono insieme:
    – missione (cosa sono oggi)
    – visione (dove voglio essere fra tre/cinque anni)
    – strategia (come intendo passare dalla prima alla seconda)
    – valori (che intendo rispettare nell’attuazione della strategia)
  • obiettivi sono invece i diversi traguardi, raggiungendo i quali l’Organizzazione persegue coerentemente le sue finalità.

Normalmente un’organizzazione è ben consapevole che la finalità perseguita produce conseguenze (negative o positive) su altri soggetti, altrimenti non si capirebbe cosa ci stia a fare, e che le finalità di questi o di altri, a loro volta, producono o possono produrre conseguenze sull’Organizzazione.
Quindi, prima di definire gli obiettivi specifici da perseguire, conviene ascoltare quei soggetti sui quali produce conseguenze, per tenere conto (ove possibile) delle loro aspettative, riducendo così le complessità e i tempi di attuazione degli obiettivi stessi.
Non sempre l’organizzazione, ascoltati questi soggetti, potrà o vorrà tenere conto delle loro aspettative, ma sicuramente non potrà non esserne consapevole, in questo modo facendosi un’idea abbastanza verosimile degli ostacoli cui andrà incontro per raggiungere gli obiettivi stabiliti. Questi soggetti, sui quali l’Organizzazione produce conseguenze in virtù della sua finalità, detengono per ciò stesso (o pensano di detenere) un titolo ad interloquire e si chiamano quindi stakeholder, soggetti consapevoli della finalità dell’Organizzazione e interessati (in positivo o in negativo) a relazionarvisi.
Quest’accezione di stakeholder ha poco a che vedere con quella generica e olistica, oggi di moda, che comprende indistintamente tutti e che, dal punto di vista della comunicazione, non aiuta la sempre più indispensabile individuazioneuno-a-uno degli interlocutori rilevanti dell’Organizzazione: non solo per ridurre l’inquinamento comunicativo, ma anche e soprattutto per aumentare l’efficacia della comunicazione.
Proseguendo nel ragionamento, se poi l’Organizzazione manifesta la sua finalità con un messaggio (sia pure) unilaterale, pushe persuasivo – sempre trasparente secondo i quattro criteri già segnalati (identità del mittente, interesse rappresentato, obiettivo fissato, modalità operative nel perseguirlo), potrà anche risvegliare consapevolezza e interesse in ulteriori potenziali soggetti stakeholder.
Con gli stakeholder così accuratamente identificati, proprio perché consapevoli e interessati, la relazione sarà diretta, pull, interattiva, tendenzialmente simmetrica e richiederà l’impiego di limitate risorse economiche.
Definito l’obiettivo da perseguire, l’organizzazione identificherà e comunicherà con (e non a) altri interlocutori:

  • coloro che influenzano le dinamiche delle variabili esterne che vanno a determinare se l’obiettivo specifico viene raggiunto (influenti);
  • coloro che, in quanto considerati leader di opinione, possono direttamente influenzare i comportamenti dei destinatari finali (leader di opinione);
  • i destinatari finali stessi.

I primi sono rilevanti poiché nessun ambiente comunicativo si realizza sotto vuoto, esente dall’influenza delle sempre più intense dinamiche sociali, economiche, culturali e tecnologiche. È quindi importante identificare le variabili prioritarie che determinano il raggiungimento dell’obiettivo fissato e per ciascuna di queste, i soggetti che ne possono influenzare le dinamiche (influenti).
I secondi sono rilevanti poiché riconosciuti dai destinatari finali come “modelli” e “testimoni” della cui opinione e dei cui comportamenti conviene tener conto.
I terzi sono coloro a cui l’organizzazione in ultima analisi si rivolge affinché mutino opinioni, atteggiamenti, comportamenti o decisioni (utenti, clienti, consumatori, elettori, cittadini…) facendo conto sull’evoluzione favorevole delle variabili esterne, ottenuta anche grazie alle relazioni intrattenute con gli influenti, e sulla capacità di orientamento esercitata dagli opinion leader, con i quali l’organizzazione ha nel frattempo dialogato.
Se per gli stakeholder attivi era sufficiente una relazione diretta, un dialogo negoziale e per quelli potenziali era necessario un solo primo messaggio persuasivo e unidirezionale per attirarne l’attenzione e convincerli ad emigrare fra i primi, per gli altri tre gruppi d’interlocutori indicati, le modalità comunicative sono inevitabilmente diverse e maggiormente articolate.
Per gli influenzatori delle issue e per i leader d’opinione dei destinatari finali, è necessaria certamente una comunicazione persuasiva e retorica che si proponga di attirare la loro attenzione, ma è anche opportuno che, per entrambi, si tratti il più possibile di una comunicazione interattiva e tendenzialmente simmetrica, poiché gli argomenti dovranno essere molto fattuali (per i primi), se si desidera che gli influenti decidano di orientare le dinamiche delle variabili, e molto convincenti per i secondi, se si vuole che, a loro volta, gli opinion leader si rendano attivamente portavoce del cambiamento presso i destinatari finali.
L’organizzazione dovrà sforzarsi di mobilitare influenzatori e opinion leader, con l’aiuto e il supporto degli stakeholder, affinché orientino verso l’obiettivo da perseguire le dinamiche delle issue rilevanti e le opinioni dei destinatari finali.
La mobilitazione degli interlocutori (in gergo call to action) è il terreno professionale prediletto del cosiddetto below the line(le discipline della comunicazione d’impresa come le relazioni pubbliche, la promozione, il direct response), anche se talvolta supportato, in una visione integrata della comunicazione, dalla pubblicità.
Infine, nella fase ultima di comunicazione con i destinatari finali, l’organizzazione farà bene a sostenere l’azione degliopinion leader con iniziative di comunicazione integrata, e questa volta sarà verosimilmente la pubblicità ad essere prevalente e le altre discipline ad operare di supporto. Questo purchè sia sempre garantita al destinatario finale, con opportuni richiami e incentivi, la possibilità di interagire e di restituire un feed-back alla comunicazione ricevuta.
Anche se il marketing virale – che prevede la mobilitazione dei “moltiplicatori” – è oggi in auge fra i “pentiti” della pubblicità commerciale unidirezionale, erga omnes e asimmetrica, sono in pochi a ricordare che, fin dall’episodio dei four minute mengià citato e risalente alla prima guerra mondiale, l’attivazione di “influenti”, di opinion leader, di moltiplicatori o di attivisti, rientra fra le più classiche leve operative delle relazioni pubbliche e connota oggi la migliore comunicazione sociale: meno visibile erga omnes, e quindi più efficace e meno inquinante.
Un esempio recente è il mutamento di strategia e gli straordinari risultati ottenuti negli Stati Uniti dal NAMI (National Association of Mental Illness).
Per decenni l’attività comunicativa del NAMI si era concentrata prevalentemente sulla raccolta di disponibilità dei media a concedere spazi e tempi per l’attivazione di campagne di educazione al rispetto dei malati mentali e di sensibilizzazione sulle loro condizioni di vita. Erano campagne che usavano testimonial famosi anche per raccogliere fondi, così come fanno la gran parte delle organizzazioni non profit nel nostro Paese.
Da qualche tempo la strategia nel NAMI è cambiata ed è diventata assai più diretta e aggressiva: in ogni sede locale i malati e le loro famiglie vengono mobilitati per premere sugli eletti del territorio, affinché producano leggi che stanzino i fondi necessari a supplire alla drammatica carenza di assistenza.
Gli eletti che rispondono positivamente, vengono mobilitati affinché orientino le issue verso gli obiettivi dati. La rete internet, usata anche come Intranet (si pensi ai 2 mila bloggers del candidato democratico Dean e ai 200 milioni di dollari raccolti grass root via Internet per la sua campagna elettorale) rappresenta il principale canale di comunicazione degli attivisti della NAMI. Una comunicazione che in questo caso è pull, interattiva e simmetrica.
Insomma, una modalità assai più impegnativa, meno affidata alla bontà d’animo dei mass media e alla pigrizia dei responsabili delle organizzazioni, ma assai più incidente ed efficace.
Come si può arguire dal percorso appena descritto, il modello proposto per un’efficace comunicazione sociale è assai più complesso di quello classicamente unidirezionale e asimmetrico erga omnes, al quale si è quasi sempre fatto riferimento, ma non per questo è più oneroso: al contrario!
È un modello “inclusivo” che:

  • tiene conto delle opportunità offerte dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e, soprattutto, da Internet come nuovo ambiente di relazione
  • assorbe le spinte esterne verso una maggiore responsabilità sociale della comunicazione, e quelle dei soggetti committenti verso una maggiore rendicontazione e misurazione delle attività comunicative – stimola la graduale e inevitabile trasformazione delle organizzazioni da “comunicative” a “comunicanti”. Infatti, anziché limitarsi a rafforzare (in parte ghettizzandola) la funzione organizzativa verticale dedicata espressamente alla comunicazione, l’organizzazione dovrà trasferire a ogni sua funzione trasversale, competenze e abilità comunicative che le rendano capaci di sviluppare i rispettivi sistemi di relazione con modalità coerenti e condivise.

Le pratiche migliori tendono quindi, oggi, a considerare la comunicazione come strumento operativo per sviluppare e governare sistemi di relazione interattivi e tendenzialmente simmetrici, che mutano tanto i comportamenti dei pubblici influenti, quanto quelli della stessa Organizzazione.
Il coinvolgimento diretto degli stakeholder, degli influenti e degli opinion leader, richiede all’operatore di comunicazione sociale forti competenze di natura relazionale, ed è assodato che la relazione uno-a-uno o uno-a-pochi è di gran lunga la modalità più efficace per indurre consapevolezza, comportamenti e per modificare opinioni, atteggiamenti e decisioni.
L’obiettivo di un’efficace comunicazione sociale, dunque, è duplice: non soltanto aumentare genericamente la consapevolezza di qualcosa affinché mutino i comportamenti, ma anche effettuare una ‘call to action’ specifica mobilitando alla causa tutti i possibili soggetti moltiplicatori.
Di conseguenza, anche la valutazione/misurazione della singola iniziativa non si misurerà più soltanto con gli output (quanti annunci, quanti ritagli) o con gli outakes (quanti ricordi spontanei o guidati di messaggi), ma anche con gli outcome (quanti fondi raccolti, quante sigarette consumate in meno, quale regolamentazione ottenuta o modificata, quanti comportamenti mutati) e, soprattutto, con gli outgrowth (come è cambiata la qualità della singola relazione e quindi, quanta e quale sfera pubblica in più è stata prodotta).


Note
(1) Che cosa s’intende per comunicazione sociale? Per Mancini “proviene dalle istituzioni pubbliche, private e semipubbliche e si occupa di argomenti di interesse generale sui quali esiste una controversia relativa”. Faccioli distingue fra “comunicazione sociale attuata dai soggetti pubblici e comunicazione di solidarietà sociale attuata da soggetti non profit”, mentre Marsocci parla di “attività che riguardano la circolazione delle informazioni attivata da parti sociali – le associazioni – e che abbia per oggetto, temi d’interesse generale”. Per l’autore comunicazione sociale è quella che va ampliare e ad arricchire la “sfera pubblica”, chiunque ne sia protagonista, organizzazione sociale, privata o pubblica.
(2) Da anni studiosi e operatori parlano di saturazione e di overdose da comunicazione, ma i dati più allarmanti provengono annualmente dalla ricerca how much info, pubblicata da www.sims.berkeley.edu/research/projetcs/how-much-info-2003, dalla quale si desume che ciascun essere umano del nostro pianeta, nel solo 2003, è stato esposto a 800 milioni di bytes di informazione con un incremento annuo del 30% dal 2001! Fra le tante implicazioni sulle persone (accorciamento dei tempi di attenzione, disincentivazione dagli approfondimenti, riduzione delle capacità di selezionare priorità…), vi è anche una seria preoccupazione verso la diffusione di una dipendenza comportamentale dai media: passiva da parte del pubblico e attiva da parte di celebrities di ogni tipo (politici, attori, imprenditori, manager…), con i comunicatori in veste di untori quando non di spacciatori-pusher (www.mediapost.com/dtls_dsp_mediamag.cfm?magID=250554). Pur senza aderire a crescenti posizioniluddiste di rifiuto aprioristico verso questa recente esplosione quanti/qualitativa di comunicazione/informazione, è comunque importante per studiosi e operatori essere pienamente consapevoli del fenomeno, ancora tutto da studiare e approfondire, anche per definire, condividere e adottare processi sostenibili di progressivo disinquinamento. Una sicura implicazione è l’esigenza di operare affinché un sempre maggior numero di pratiche comunicative migri dall’essere, come sono oggi, prevalentemente uno-a-molti, unilaterali, asimmetriche, push e orientate ai destinatari finali, fino a diventare pratiche uno-a-pochi, multilaterali, tendenzialmente simmetriche con i pubblici influenti (soggetti non necessariamente consapevoli e interessati a una relazione, ma che l’organizzazione ritiene influenti sul raggiungimento dei suoi obiettivi) e che si sforza di coinvolgere con modalità trasparenti: declinando sempre la propria identità, l’interesse rappresentato, l’obiettivo perseguito e il percorso che intende attuare per raggiungerlo). E questo in parallelo ad una comunicazione uno-a-uno, bilaterale, pull e simmetrica con gli stakeholder (soggetti già consapevoli e interessati ad una relazione con l’organizzazione: they hold a stake).
(3) Vedi Bled Manifesto di B. Van Rule e D. Vercic 2002, accessibile, anche in lingua italiana digitando Bled Manifesto dal motore di ricerca del sito www.ferpi.it.
(4) Nessmann K. (2000), “The origins and development of Public Relations in Germany and Austria in Perspectives in Public Relations research” Routledge, London-New York
(5) Jensen J. (2000), “Legitimacy and Strategy of different companies. Public Relations research. An International Perspective”. London
(6) Oeckl A. (1976), Handbuch der Public Relations. Munchen, Suddeutscher Verlag
(7) Ronnenberg F., e Rohl M. (1992), Theorie der Public Relations, Westdeutscher Verlag
(8) Habermas J. (1962), Strukturwandel der Offentlichkeit, Darmstadt, Hermann Luchterhand Verlag
(9) Lippmann W. (1930), Public Opinion, McMillan, New York
(10) Price V. (1992), Public Opinion, Newbury Park, Sage
(11) La teoria sistemica è una delle tre principali teorie delle relazioni pubbliche. Le altre due sono quella critica e quella retorica. Per il “sistemico” Grunig ogni organizzazione, per avere successo deve integrarsi armonicamente nell’ambiente circostante e per fare questo con efficacia deve conoscere e interpretare i valori e le aspettative dei suoi pubblici influenti prima ancora di definire i traguardi specifici dell’organizzazione, così da selezionare obiettivi effettivamente raggiungibili. Per il “retorico” Heath, la “rappresentazione di un argomento” (advocacy) da parte di una organizzazione è parte necessaria della creazione di senso e conoscenza, ha a che fare sia con i processi che con i contenuti del “discorso pubblico” attribuendo voce paritaria a tutti i partecipanti con interesse al dialogo. Un dialogo imperniato su fatti (epistemologia), valutazioni (assiologia) e scelte politiche, di prodotti e di servizi (ontologia). Per i “critici” Ewen, L’Etang, Olasky, nessuna teoria potrà mai impedire ai poteri “forti” di piegare e di manipolare le coscienze delle persone e le relazioni pubbliche rappresentano nella nostra società la massima espressione di questo esercizio. Nel 2001, pubblicato da Sage Publications Inc., e curato da Robert L. Heath (campione riconosciuto dell’approccio ‘retorico’, professore all’Università di Houston), è uscito un fondamentale volume dal titolo – assai poco pretenzioso – “Handbook of Public Relations”, nel quale i massimi esponenti delle tre ‘scuole’ tentano di individuare i “paletti” per un approccio teorico comune. Il volume, non casualmente, si apre con un efficace saggio di James Grunig, il maggior teorico contemporaneo delle relazioni pubbliche, nel quale rivede il suo celebre modello “simmetrico” accogliendo le giuste osservazioni critiche dei suoi colleghi sia “retori” e “critici”, fino a sostenere – lui che ha teorizzato l’approccio “sistemico” (1984) partendo dalle relazioni pubbliche come scienza della comunicazione – che il cuore delle relazioni pubbliche è – in effetti – nella “relazione” (e con questo dando soddisfazione ai “retori”) e che la “simmetria” (la condizione che a suo avviso rende davvero efficaci le relazioni pubbliche) è solo tendenziale e si ottiene soltanto se e quando il relatore pubblico esercita in eguale misura le sue abilità persuasive nel convincere la coalizione dominante interna ad adeguarsi alle aspettative dei pubblici influenti come nel convincere i pubblici influenti ad adeguarsi alle aspettative della coalizione dominante interna (dando così soddisfazione ai seguaci dell’approccio “critico”). La teoria generale di Grunig (elaborata inizialmente nel 1984, poi rielaborata nel 1992 e infine rivisitata e ripresentata nel 2002) parte da una analisi storica delle relazioni pubbliche che identifica quattro modelli applicativi prevalenti, tutti ancora oggi largamente praticati (salvo l’ultimo, si intende). Il primo modello è quello “press agentry” o “publicity”, largamente presente nella pratica odierna, avviato a metà ottocento da P.T. Barnum. Non c’è attore, sportivo, cantante, imprenditore di grido, politico, che non abbia il suo “press agent” per “occupare” lo spazio dei media – facendo leva sulla relazione con il giornalista – e, indirettamente, l’attenzione del pubblico, ma non necessariamente il suo consenso o la sua comprensione. È un modello che esalta – sì – il ruolo dei media, ma che denota implicitamente una considerazione piuttosto limitata dell’autonomia professionale del giornalista e della sua funzione di “quarto potere” – a tutela della integrità del lettore in una moderna democrazia rappresentativa. L’importante, infatti, è che la notizia diffusa sia perlomeno verosimile, poiché quando anche in un secondo momento si rivelasse non vera, raramente un giornale ci ritornerà su per avvertire il lettore dell’errore commesso. Si pensi ad esempio alla cosiddetta “politica dell’annuncio”, politica prevalente ancora oggi in molte organizzazioni, società finanziarie e, soprattutto, forze politiche, o alla pervasività del gossip… Il modello è a una via (l’informazione viaggia dal press agent al giornalista) ed è asimmetrico (il giornalista dipende, sotto molti aspetti, dal press agent). Il secondo modello è quello della “public information”, avviato ai primi del secolo scorso da Ivy Lee, considerato uno dei padri fondatori delle relazioni pubbliche. In questo modello la funzione del professionista delle relazioni pubbliche è, ancora una volta, soprattutto quello di produrre e diffondere informazioni ai giornalisti: ma questa volta le informazioni devono essere fattuali e consapevolmente orientate non solo a catturare l’attenzione, ma anche a influenzare l’opinione pubblica in favore degli obiettivi dell’organizzazione committente. Oggi si può dire che questo sia il modello prevalente nella parte più avanzata del settore pubblico, delle istituzioni e fra gli operatori finanziari più avveduti. In questo modello, il ruolo del giornalista è di chiedere e ricevere le informazioni più dettagliate possibili, di valutarle, di interpretarle e di decidere se e come, sia pure nell’ambito di determinate regole condivise, renderle note ai suoi lettori. Fra operatore di relazioni pubbliche e giornalista si innesca una relazione di fiducia e di interdipendenza. È un modello sempre a una via (chi comunica persegue soltanto il suo obiettivo e attribuisce scarso peso al feed-back se non in chiave di miglioramento per la performance successiva), ma è comunque un modello maggiormente simmetrico rispetto al primo. Infatti, il giornalista non è soltanto strumento nelle mani della fonte che controlla la relazione, poiché gli viene riconosciuto un ruolo di tutela dell’interesse dei suoi lettori. La parte migliore della comunicazione pubblica odierna può essere ascritta a questo modello. Il terzo modello è quello che per una buona parte del secolo scorso è stato impersonato da Edward Bernays e che rappresenta il modello ancora oggi prevalente nelle grandi imprese internazionali e, da qualche tempo, anche italiane: è orientato alla relazione a due vie, ma sempre abbastanza asimmetrico. È un modello che assume integralmente i parametri della psicologia e della sociologia e si propone la persuasione scientifica di determinati segmenti di pubblico, in funzione degli obiettivi dell’organizzazione. Alla base delle elaborazioni di Bernays sono, soprattutto, le opere di Sigmund Freud, di Walter Lippman e del sociologo francese di fine secolo Gustave Le Bon. È un modello che prevede un intenso uso delle ricerche sociali (sondaggi di opinione e focus group) e, in questo senso, è un modello a due vie: l’interlocutore viene, infatti, continuamente “ascoltato”. Tuttavia è un modello asimmetrico poiché quell’ascolto si propone la persuasione scientifica, in funzione di obiettivi unicamente unilaterali e trascura la soddisfazione dei possibili obiettivi dell’interlocutore. Da questo punto di vista, il modello di Bernays è quasi-ideologico: nel senso che implica che le relazioni pubbliche, proprio per il fatto di essere tali, siano comunque un bene per la società e quindi anche per i pubblici influenti, oltre che, naturalmente, per il soggetto committente. È un modello che, per la prima volta, postula che le relazioni pubbliche non si rivolgono esclusivamente ai giornalisti o ai decisori pubblici (lobby): si riconosce, infatti, che ciascun segmento di pubblico, anche e soprattutto quello rappresentato dai consumatori, può essere influenzato da diversi altri soggetti, gruppi di pressione e opinion leader. Il quarto modello, detto di Grunig, dall’accademico americano che l’ha razionalizzato, è anch’esso “a due vie”, come quello di Bernays, ma è più simmetrico. È un modello che postula per un’Organizzazione l’importa
nza preventiva dell’ascolto, prevalentemente tramite la ricerca sociale e l’analisi attenta dei soggetti influenti e la relazione interattiva con loro. Ma un ascolto inteso non come esclusivamente orientato – è il caso di Bernay – alla costruzione di messaggi efficaci da trasferire in funzione di obiettivi specifici dell’organizzazione, ma anche e soprattutto inteso ad aiutare quest’ultima a raggiungere un posizionamento dinamico dei rispettivi sistemi di relazione con gli stakeholder – influenti, così da indurla a perseguire obiettivi che tengano anche pienamente conto dei loro interessi e dei loro valori, incorporandoli nei propri. Il professionista di relazioni pubbliche assume così un ruolo di “interprete attivo” (sia pure sempre ed esplicitamente di parte) fra una Organizzazione e i suoi pubblici influenti, ed opera così per attivare e sviluppare quel dialogo, quella reciproca comprensione che consente all’organizzazione di raggiungere più agevolmente i suoi obiettivi, proprio perché consente ai pubblici influenti di ricavarne un percepibile ed effettivo valore aggiunto. Per una qualsiasi organizzazione, infatti, si apre una “questione” di relazioni pubbliche ogniqualvolta una sua decisione può produrre conseguenze su altri soggetti (interni o esterni), oppure, al contrario, quando il comportamento di altri soggetti (interni o esterni) può produrre conseguenze sulle modalità e sul successo con cui quella stessa decisione viene realizzata. Queste “conseguenze” possono dunque derivare sia dai comportamenti dei pubblici influenti che dai comportamenti dell’organizzazione.
(12) Olaski M. (1987), Corporate Public Relations, a new historical perspective, Lawrence, Erlbaum
(13) Fasce F. (2001), Democrazia degli Affari, Carocci Editore

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