Perrini (CReSV): «Ne beneficeranno soprattutto i first mover». Occorre però un piano industriale per un’economia ecologica
«In fondo, per litigare con il re bisogna usare il suo linguaggio, indipendentemente dal fatto che le premesse del discorso siano ragionevoli», scrive l’antropologo David Graeber nel suo ultimo saggio, del quale uno stralcio è ripreso oggi da la Repubblica. Domandarsi dunque quanto vale la sostenibilità per un’impresa, pragmaticamente, non è una domanda peregrina. Dovrebbe essere ormai sottointeso che un radicale cambio di paradigma socio-economico (quel che davvero occorre per parlare sul serio di sostenibilità) non possa prescindere anche da un’ecologia di linguaggio e di pensiero che non riconduca ogni aspetto della vita ad un riduzionismo economicista. Precisato questo, fare i conti col mondo reale significa anche ragionare di “vil denaro” (in particolar modo in tempo di crisi), che all’interno di un rapporto responsabile rimane un mezzo e non un fine, e “vile” non è più.
Proprio sulla responsabilità si incentra “Dal Dire al Fare” – Il salone della Responsabilità sociale d’impresa, che torna per la sua ottava edizione all’Università Bocconi di Milano, con un fitto programma che si conclude oggi. Francesco Perrini, direttore del CReSV (Centro ricerche su sostenibilità e valore), al proposito ha avuto modo di affermare che «Diventare socially responsible è da un lato una meta ambiziosa che impone l’utilizzo di molte risorse ed energie, ma in un’ottica di lungo periodo, permette di creare valore sostenibile, offrendo quindi maggiori opportunità alle aziende per diventare più competitive ed efficienti nel loro operato nel rispetto delle future generazioni e per tentare di uscire da questa crisi del capitalismo finanziario».
È stato proprio l’intervento di Perrini – intitolato “Verso il valore sostenibile: traiettorie di diffusione” – a fare da apripista alla prima sessione di convegni del salone (che ospita oltre novanta organizzazioni), concentrati quest’anno sul tema dell’innovazione, in un contesto “dove cambiano i prodotti, i consumi, il mondo del lavoro, le relazioni”.
«Il ritorno economico della sostenibilità viene misurato in maniera innovativa e quindi non solo come rendimento o profitto generato del denaro investito – sottolinea il direttore CReSV – ma come un investimento ad utilità pluriennale che abbassa il rischio d’impresa, ne aumenta la reputazione, apre nuovi mercati, crea valore di lungo periodo assicurando la sopravvivenza dell’impresa che si rinnova e resta sul mercato. La vera domanda che tutti si fanno è: come facciamo a capire se la Csr (corporate social responsabilità) crea o distrugge valore? La risposta dipende dalla prospettiva, se adottiamo la prospettiva del valore allargato (valore aggiunto creato per gli stakeholder) invece che del profitto o valore dell’azionista. La superiorità delle aziende sostenibili rispetto a quelle non, e la loro capacità di soddisfare meglio lo spettro allargato di portatori di interesse della società, garantisce una maggiore sostenibilità di lungo termine». Una teoria avvalorata proprio dallo studio condotto dal CReSV – che è attivo sul tema della sostenibilità come leva per la creazione di valore – e presentato a “Dal Dire al Fare”. Condotto su un campione di 102 aziende europee attive in variegati settori economici, tale studio evidenzia che le aziende “sostenibili” – termine che poi andrebbe verificato davvero nella sua rispondenza a criteri unici e riconosciuti di reale sostenibilità ambientale e sociale – hanno (o avrebbero) il 70% di possibilità in meno di subire un fallimento.
«La sostenibilità è un fattore strategico ma anche opportunità di business: tali opportunità legate alla sfida dello sviluppo sostenibile sono stimate in 6,2 trilioni di dollari, di cui beneficeranno, in primo luogo, i first mover», queste le conclusioni di Perrini, che di per sé dovrebbero suonare insieme come un augurio ma anche un campanello d’allarme per l’economia del nostro sistema-Paese.
Rimanere al palo nel riorientare i nostri processi industriali in un’ottica di economia ecologica (incentrata dunque sulla sostenibilità ambientale e sociale, con particolare attenzione ai flussi di materia ed energia consumati ed espulsi) vorrebbe dire arrivare tra i second o third mover, perdendo il treno di un nuovo e sostenibile canale di business, per arrancare ancora una volta come fanalino di coda ad altri Paesi, più accorti al cambiamento – ineludibile – in atto. Tornare a creare lavoro e costruire al contempo lo scheletro di un’economia reale davvero sostenibile (al netto del greenwashing e di tutti quelli che usano la parolagreen o quella bio per “vendere” di tutto e di più) impone il coraggio e la tenacia di individuare una strategia industriale, e spetta al settore pubblico collaborare con le imprese perché questa possa realizzarsi, pena rimanere indietro e fare l’amara fine di Don Abbondio: «in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiar in compagnia di molti vasi di ferro».