I manuali di management li considerano la “coscienza” delle aziende, quei professionisti che hanno coniato parole come stakeholder, convinti che un business per essere sano debba restituire qualcosa non solo ai propri azionisti ma anche al suo territorio e alla sua comunità, e disposti a sfidare le esigenze di bilancio in nome della sostenibilità ambientale e della responsabilità sociale d’impresa. Sono i csr manager, i dirigenti della corporate social responsibility, una generazione ancora giovane per il nostro panorama industriale se è vero che secondo uno studio della Cattolica solo il 40,1% delle aziende italiane quotate ne ha uno al suo interno, mentre quasi il 60% ne è tuttora sprovvisto.E mentre all’estero sono spesso considerati dei guru, uomini capaci di dare un volto umano e quindi “sostenibile” a qualsiasi business e quindi conquistarsi la fiducia e il rispetto dei consumatori, in Italia, complice il tessuto produttivo fatto di piccole e medie imprese, il loro ruolo sta crescendo lentamente e rimane legato in maniera esclusiva alle aziende di grandi dimensioni. «Si tratta di un lavoro a perimetro variabile – spiega Fulvio Rossi, csr manager di Terna e presidente del Csr Manager Network, l’associazione che riunisce i professionisti del settore – perché i suoi protagonisti sono chiamati a trattare tematiche spesso differenti, che cambiano anche da azienda ad azienda. Da un lato hanno un compito di ispirazione, quindi devono predisporre piani e obiettivi per rendere le imprese più sostenibili a livello ambientale e più sane nel rispetto dei principi della responsabilità sociale; dall’altro gli vengono richiesti impegni precisi e molto tecnici come la preparazione e la redazione del bilancio sociale, uno strumento sempre più diffuso tra le grandi aziende».
«Purtroppo – continua Rossi – è ancora molto difficile individuare quale sia il valore effettivo in termini di ritorno economico delle attività ispirate alla corporate social responsibility; è certo che un legame tra le attività csr e la creazione di valore esiste anche quando il manager interviene su caratteristiche all’apparenza intangibili, come la reputazione, le competenze, la previsione dei rischi». Nonostante il peso sempre maggiore riconosciuto a questi asset intangibili, le aziende richiedono ai csr manager prettamente soluzioni pratiche e prodotti utili a migliorare la loro immagine sul mercato. È il caso dei rapporti di sostenibilità che ormai vengono pubblicati dal 70% dei gruppi quotati alla Borsa di Milano.
«In Italia – commenta Carlo Caporale, senior partner della società di recruitment Robert Half – la richiesta di questi profili professionali è in crescita, anche se la domanda sul mercato arriva quasi esclusivamente dalle grandissime aziende, soprattutto le quotate in Borsa. Questo conferma che, almeno per i csr manager, il nostro Paese è ancora decisamente indietro rispetto a Francia e Germania, ma soprattutto a Inghilterra e Stati Uniti dove il grado di interesse nei confronti di queste figure è molto più elevato. La conseguenza è duplice: da una parte i dirigenti esperti di responsabilità sociale sono una merce rara, quindi hanno buon mercato; dall’altra però la domanda delle loro prestazioni è bassa, e quindi anche i posti disponibili sono ridotti». Questa arretratezza trova conferma anche a livello organizzativo. In alcune aziende il csr manager risponde alla direzione finanziaria, in altre a quella legale, in altre ancora direttamente all’amministratore delegato. «Anche questo elemento – continua Caporale – conferma che non si tratta di un profilo standardizzato, tanto nella considerazione gerarchica, quanto nel percorso formativo che viene seguito e che spesso differisce da professionista a professionista».
«Dalle nostre indagini su consumatori e manager – spiega Marcella Mallen, presidente del Centro di formazione manager del terziario – emerge con forza la richiesta di sostenibilità, che vuol dire attenzione all’ambiente, ma anche e soprattutto all’intorno sociale in azienda e fuori. Questo è da alcuni anni un must che entra con forza nei nostri percorsi formativi. Non solo e non tanto quindi corsi per le funzioni ad hoc (green o energy manager o CSR manager), ma soprattutto un filo conduttore che lega molti percorsi formativi e che permea gli aspetti strategici e operativi. Seguendo questa strada, gli aspetti del csr diventano direttrici strategiche dell’azienda per guidare cultura aziendale, comportamenti, innovazione e per diventare solo poi contenuti della comunicazione che in primo luogo deve informare e formare i partner e i clienti e condividere con loro questa mission». «Perché – conclude Mallen – per diventare vantaggi competitivi queste dimensioni del fare business devono essere reali e incidere sui processi interni ed esterni. Non mode passeggere e messaggi mediatici che avrebbero vita breve e non inciderebbero sulla promessa dell’offerta aziendale».