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Uno dei maggiori limiti dell’attuale approccio delle imprese che si avviano lungo il percorso di una maggior responsabilità sociale (CSR) riguarda la difficoltà di valutare con criteri quantitativi le performances d’impresa lungo i tre principali assi della sostenibilità: quello economico, sociale e ambientale. Di recente, si sono verificati alcuni sviluppi verso una standardizzazione degli indicatori di performance, come dimostrato, ad esempio, dall’iniziativa ISTAT-CSR Network.
Eppure, si è ancora lontani da una valutazione unitaria dell’apporto dell’impresa al benessere della collettività, magari capace di integrarsi pienamente con gli indicatori economici di redditività aziendale. Gli indicatori di CSR, infatti, spesso sono espressi con unità di misura non dialoganti fra di loro e, soprattutto, sono parziali, in quanto guardano maggiormente all’impegno dell’impresa in determinate aree di miglioramento (la riduzione delle disparità di genere, le elargizioni liberali sul territorio), piuttosto che a una misura unitaria del benessere economico, sociale e ambientale apportato dalle attività aziendali.
Un approccio di questo tipo per la misurazione dell’utilità collettiva di un progetto, però, esiste già, ed è l’analisi costi benefici (ovviamente estesa alle componenti più intangibili, come gli effetti sanitari e ambientali dell’inquinamento). Può essere utile applicare le metodologie costi benefici per fornire una valutazione unitaria dei costi esterni e dei benefici esternidell’attività d’impresa? Quali i rischi da evitare, quali le opportunità da cogliere?
Francesca Magliulo, responsabile CSR Edison. “E’ un argomento di cui si parla da molto tempo nel settore. Si tratta, in realtà, di una domanda che spesso i manager rivolgono agli esperti aziendali di CSR, ma il problema è che finora non ho ancora visto un sistema realmente adeguato che vada in questa direzione. C’è da dire, comunque, che non tutto può essere sempre ridotto a un’analisi costi benefici, data la complessità dei temi della CSR. Penso a tutto il discorso della relazioni sul territorio con le comunità locali, a cui sarebbe difficile applicare questa metodologia, che possono sì rappresentare un costo nel momento in cui, ad esempio, implicano un ritardo nella realizzazione di un impianto, ma in realtà rappresentano una questione molto più complessa”.
Andrea Molocchi, partner di ECBA Project. “Un approccio unificante, capace di valutare in termini economici e comparare fra di loro diverse categorie di effetti ambientali e di valore economico per la collettività creato dall’impresa, esiste già da anni, ed è l’Environmental Cost Benefit Analysis (ECBA), implementata soprattutto per la valutazione pubblica di politiche incentivanti, di piani e di progetti, a partire dai progetti con co-finanziamento pubblico. Anche in Italia, in base al DPCM 3 agosto 2013 tutte le opere pubbliche finanziate dai ministeri devono essere sottoposte ad analisi costi benefici, allo scopo di misurare il valore del beneficio netto per la collettività dei singoli progetti e di migliorare la programmazione della spesa pubblica, evitando il finanziamento di opere non sufficientemente utili. Se lo fa lo Stato, lo può fare anche l’impresa: oggi si può misurare il benessere netto per la collettività creato dalle attività d’impresa, dato dalla differenza fra il valore aggiunto e il valore delle esternalità ambientali generate dall’impresa stessa. Si può iniziare a valutare perlomeno l’ordine di grandezza dell’esposizione economica di un’azienda ai principali rischi ambientali e confrontarlo rispetto al benchmark di settore. Lo chiedono i cittadini, iniziano a chiederlo le banche e gli azionisti. E’ un percorso da compiere gradualmente, ma di grande efficacia per guidare la politica di responsabilità sociale delle imprese verso uno sviluppo più sostenibile, ed eventualmente ri-direzionarne le priorità, gli sforzi finanziari e di innovazione verso più promettenti obiettivi di miglioramento, secondo criteri quantitativi e trasparenti”.
Alessandro Beda, Consigliere d’Indirizzo di Fondazione Sodalitas. “Ogni azienda ha specificità uniche e deve impostare una politica di CSR riferita al modello d’impresa che desidera realizzare: è cioè fondamentale, in altre parole, che ogni impresa consideri il proprio IMS – Impatto di Materialità Specifica perché, a parità di investimenti, gli impatti possono essere fortemente diversi. La misurazione e la comunicazione dell’impatto saranno un fattore di credibilità determinante. anche in Italia, come già in corso negli USA, andranno ben presto definite delle mappe di materialità settoriali per facilitare la scelta delle allocazioni prioritarie dei settori di intervento”.
Anna Villari, Responsabile Csr A2A. “Standardizzare le metodologie è un aspetto importante per la Corporate Social Responsibility. Sicuramente l’analisi-costi benefici può essere una via. Tra i pro la possibilità di utilizzare un metro economico per misurare degli aspetti intangibili, come la salute o l’integrità dell’ambiente , e quindi di parlare con un linguaggio familiare al management di una azienda. Tra i contro la difficoltà di trovare criteri oggettivi per valutare l’intangibile e soprattutto il rischio di allontanarsi da quello che deve essere il focus primario della Sostenibilità, il dialogo e il coinvolgimento degli stakeholder”.

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