La drammatica vicenda ucraina si è imposta con immediata urgenza alla sensibilità collettiva europea. E non poteva che essere così. Una guerra antistorica dentro l’Europa, civili straziati, evocazione del nucleare, drammatici appelli del leader e dirette social costanti dagli stessi assediati, rappresentano una narrazione inquietante e totalizzante.
Uno scenario che ha portato inevitabilmente le principali aziende internazionali a cercare delle forme di coinvolgimento. Chi prima, chi dopo. C’è chi, ancora traccheggiando, soppesa il minor danno tra la perdita immediata del mercato russo e il potenziale danno reputazionale a livello globale per “omessa indignazione” e chi invece ha già sbarrato ogni porta a Mosca. Chi esprime una solidarietà leggera e tutta social, e chi invece si attiva con azioni più concrete, in linea con il proprio purpose. Infine, c’è chi –specchio dei tempi- adotta scelte insensatamente radicali, che puzzano di cancel culture. Ma, più o meno tutti, indirizzando un proprio segnale al mercato russo, cercano di sintonizzarsi su quel sentimento di sdegno dell’opinione pubblica internazionale.
D’altra parte, in tempi di preteso e atteso attivismo dei brand, dove si chiede alle marche di dimostrare una propria coscienza, le immagini di bambini uccisi in una guerra d’aggressione -in terra d’Europa!- non possono non determinare un immediato moto di turbamento. La rapidità con cui l’opinione pubblica europea ha reagito in questo caso, non deve stupire. Condannarle come il disvalore massimo, è ormai diventata parte del nostro stesso dna continentale, un principio metabolizzato e oramai acquisito da decenni, dopo gli orrori di due guerre mondiali. Ma ricordiamoci che i primi sostenitori del pacifismo laico, agli inizi del novecento in Europa, rappresentavano poco più che una bizzarria. Usualmente, infatti, esiste un tempo di gestazione per le cause sociali. Una istanza di questa natura, di norma, nasce fragile e vulnerabile, minoritaria e controcorrente. Ma poi cresce col tempo, di pari passo alla diffusione nella società di quella sensibilità che la riconosce come tale. Ci possono volere anni per la sua affermazione, decenni, o generazioni. Basti pensare al razzismo, alla sensibilità ambientale, a al rispetto degli orientamenti sessuali. Dipende dal grado di predisposizione di una collettività a riconoscere, in determinati comportamenti, quel disvalore che li rende non più accettabili, non più tollerabili. Si tratta di un percorso graduale e complesso, non sempre lineare, ma che ha sicuramente nella acculturazione di massa e nella libera diffusione delle informazioni (leggi, grado di civiltà), due fondamentali acceleratori nella società.
Oggi “esplodono” cause sociali dopo percorsi di crescita durati decadi, costellati da migliaia di episodi di denuncia e di sensibilizzazione, prima di fare breccia nell’opinione pubblica tanto da diventarne una battaglia prioritaria. Cause che, nel tempo, si sono infiammate per singoli episodi di cronaca e poi riassopite, perché in quella collettività di riferimento non si erano ancora diffusi sufficientemente gli anticorpi atti a combattere quella battaglia in modo continuativo. Dunque, un terreno complesso e scivoloso per le aziende, dove orientarsi e compiere la scelta più corretta di sintonizzazione, rappresenta una forma di decisone critica. Ma il tempo, anzi la tempistica, conta. E tanto. E’ indubbio che proprio nel “momento” in cui verrà operata una scelta, risieda una parte determinante del valore della medesima. Perché la decisione del sostegno ad una causa sociale avrà sempre più, per i consumatori, un valore diverso a seconda della tempistica con cui questa verrà espressa dal brand, secondo un paradigma di autenticità e credibilità che ne determinerà, in ultima analisi, il vero valore reputazionale.
E questa gradazione potrebbe essere espressa attraverso un diagramma rappresentabile come una sorta di curva e segmentabile in un processo a tre fasi. Un modello secondo cui, al dilatarsi del tempo, si riduce proporzionalmente l’efficacia raggiunta. Quando un tema inizia ad emergere per la prima volta in una comunità è quasi sempre minoritario, scomodo, controverso, talvolta disturbante per la maggioranza e dunque divisivo. In questa fase, per una azienda che ambisce ad avere un pubblico di riferimento più vasto del target che sostiene quel tema, supportarlo rappresenta un azzardo, un rischio, significa esporsi tra i primi dalla trincea, rischiando il fuoco nemico delle polemiche. Ma rappresenta altresì un enorme patrimonio di autenticità e di credibilità da cogliere. Essere stati tra i primi e tra i pochi, a compiere una scelta (in quel momento) difficile, resterà nella storia di quella marca, forgiandola.
Proseguendo, in una fase successiva, all’affermarsi della sensibilità su quel tema, questo diventerà gradualmente maggioritario nella società e scegliere di schierarsi a suo favore verrà percepito come una scelta che prevede un rapporto costo/opportunità adeguato. Ma esattamente per questa ragione, risulterà altresì minore il profitto generato in termini di reputazione conseguita. Una scelta meno rischiosa, meno pura, è più conveniente dunque “vale” meno. In questa fase si assisterà probabilmente ad un costante e graduale aumento delle aziende che decideranno di schierarsi a sostegno. Tutti cercano di comprare una azione quando questa è in ascesa.
Infine la terza fase, quella che potremmo definire del “conformismo”. Il tema è ormai esploso, main stream e maggioritario nella società, la sensibilità comune lo ha eletto a bandiera di civiltà. Le aziende si affollano in scia nella speranza di coglierne ancora un valore di posizionamento, o per lo meno evitarne un pregiudizio. Ma a questo punto è tardi per cogliere un profitto vero. Questa è una scelta ormai obbligata, dettata dalla pressione critica dei consumatori. Semplicemente non si può più non farlo, perché questo potrebbe determinare un danno di reputazione di lungo periodo e significativa rilevanza. Ma proprio perché il valore marginale comunicativo conseguito in una fase di livellamento è ridotto, sarà esattamente a questo stadio che si assisterà ad alcuni degli errori più grossolani compiuti dalle aziende. Perché, per cercare di differenziarsi, per mostrare una adesione alla causa più sincera di quanto la tempistica suggerirebbe, si sarà tentati di urlare di più, di caricare i toni, con effetti talvolta controproducenti in quanto innaturali, insinceri, artefatti e persino caricaturali. Gli esempi di disastrose campagne di puro woke washing in questo senso, si sprecano. Ma non c’è solo questo. E’ chiaro che pubblici più attenti e consapevoli (pensiamo alla generazione Z, ipersensibile, che non si accontenta e soprattutto non dimentica), sanzioneranno comunque l’attendismo di aziende ritenute abitualmente più reattive a queste tematiche. Semplicemente perché, a loro parere, avrebbero potuto e dovuto agire prima, senza un eccessivo calcolo opportunistico.. Il delicato obbiettivo da raggiungere è dunque la percezione che la propria scelta di adesione alla causa sia autenticamente generata da ragioni etiche, in quanto mediata il meno possibile da eccezioni di convenienza economica. E tornado all’attualità, proprio qui risiederà la vera difficoltà per i brand che hanno scelto di dare un segnale forte alla Russia, a seguito dell’invasione. Perché la autenticità della loro scelta, dunque la loro stessa credibilità, verranno presto messe alla prova dalla durata del conflitto e dalle sue conseguenze. Perché, se il conflitto proseguirà a lungo o se terminerà asimmetricamente, raggiungendo cioè solo gli obiettivi di chi lo ha iniziato, sarà difficile tornare in quel mercato mantenendo una coerenza con le posizioni iniziali. In particolare, per le aziende che hanno in quella specifica area un target importante. Quanto potranno reggere?