Lavorare meno, lavorare tutti. Dopo lo tsunami causato dalla crisi finanziaria del 2008, questo slogan è entrato prepotentemente nel dibattito pubblico e, di recente, anche nelle istituzioni italiane.
Il nuovo presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, sostiene da tempo che una riduzione dell’orario di lavoro, a parità di stipendio, sia una leva per far aumentare l’occupazione e per ridistribuire la ricchezza. Secondo il custode delle pensioni italiane, gli incrementi di produttività andrebbero compensati con un aumento della retribuzione o con maggiore tempo libero.
Le aziende ricorrono sempre più spesso all’utilizzo del termine flessibilità per calibrare l’orario di lavoro dei dipendenti. Peccato che il concetto di lavoro flessibile finisca spesso con l’essere utilizzato a svantaggio dei lavoratori. Il laptop e il cellulare aziendale ti permettono di lavorare agevolmente da remoto ma ti costringono anche a leggere le email di lavoro a orari improbabili. Il lavoro part time in Italia rappresenta sempre più spesso l’unica possibilità per evitare di rimanere senza un’occupazione, e il lavoro flessibile assume sempre più spesso la connotazione di lavoro precario, con meno tutele e meno stabilità di chi ha un impiego fisso. Il bilanciamento tra attività lavorativa e vita privata viene messo in secondo piano, sacrificato sull’altare delle esigenze aziendali.
Quando le società decidono di porre attenzione sulle esigenze dei propri dipendenti, tuttavia, i risultati possono essere sorprendenti. In Giappone, Microsoft Japan ha sperimentato la settimana lavorativa di quattro giorni senza nessuna riduzione della retribuzione. Secondo i dati forniti dall’azienda nipponica, la produttività è aumentata del 40% durante il periodo di prova. La durata delle riunioni interne si è dimezzata e si sono registrati risparmi in termini di elettricità e di carta utilizzata, con un effetto positivo anche sull’ambiente. La sperimentazione è stata accolta con entusiasmo dai dipendenti e dai giapponesi che hanno da molti anni un serio problema di superlavoro con ritmi insostenibili che hanno portato anche a morti per lavoro eccessivo davvero inaccettabili.
Alcune analisi economiche hanno stabilito come all’aumentare dell’orario di lavoro la produttività del singolo dipendente diminuisca. Ad esempio, una conference call fatta dopo una giornata particolarmente stressante rischia di durare molto più del dovuto. La fatica gioca un ruolo importante nell’organizzazione del lavoro. È arrivato il momento per le aziende di prendere in seria considerazione questo aspetto. La gig economy è stata uno strumento utilizzato in larga parte dalle imprese per diversificare la propria offerta di prodotti e servizi. La forza lavoro non ha tratto particolari benefici dalla rivoluzione tecnologica che, al contrario, ha spesso incentivato la creazione di nuovi lavori con pochissime tutele, come nel caso dei riders.
C’è da dire che le imprese che forniscono servizi – ancora troppo poche in Italia – hanno una struttura più agile in grado di rispondere velocemente alle riforme legislative. La natura industriale italiana al momento sarebbe difficilmente compatibile con una modifica per legge della settimana lavorativa. Le realtà produttive sono ancora legate a un sistema di relazioni industriali tradizionale, dove il sindacato e la contrattazione collettiva hanno un ruolo centrale. Molte aziende, dunque a oggi non sarebbero in grado di garantire un giorno in meno di lavoro a parità di salario, e un intervento legislativo in questo senso rischierebbe di produrre risultati indesiderati, come il calo dell’occupazione e tensioni sociali nelle realtà produttive meno avanzate. È fondamentale quindi procedere con ordine, incentivando le aziende più innovative a svolgere il ruolo di apripista, ridistribuendo i loro incrementi di produttività verso il benessere dei lavoratori. Il sindacato dovrebbe ricoprire un ruolo chiave anche in questo senso. Procedere per decreto potrebbe essere controproducente. Una diversa regolamentazione dell’orario di lavoro da inserire nei singoli contratti collettivi sarebbe invece molto utile. Per le aziende più innovative è ormai imprescindibile uscire dalla vecchia logica che guarda all’orario come mero e primario strumento di controllo per entrare in una nuova era in cui le ore lavorative vengono commisurate alla produttività e al benessere dei dipendenti.
Per quanto riguarda il ruolo del sindacato nel settore industriale, un esempio virtuoso viene dalla Germania, dove il sindacato Ig Metall ha sottoscritto un accordo con le associazioni industriali grazie al quale i dipendenti potranno scegliere di ridurre il proprio orario di lavoro a 28 ore settimanali, dedicando il tempo libero ai figli piccoli o ai parenti malati. Questa possibilità è stata estesa anche ai lavoratori che svolgono attività particolarmente usuranti. L’accordo dimostra come i lavoratori abbiano ancora bisogno di rappresentanti in grado di tutelare i loro diritti e migliorare la loro qualità della vita. Il contratto collettivo è stato sottoscritto nella regione che ospita gli stabilimenti della Porsche e della Daimler e riguarda oltre novecentomila lavoratori. L’obiettivo è estendere la riduzione di orario ai quasi quattro milioni di lavoratori del settore metalmeccanico.
Come ogni transizione, sono molte le insidie che potrebbero frapporsi tra la diminuzione dell’orario di occupazione e un effettivo aumento del benessere dei dipendenti. I datori di lavoro potrebbero mantenere un doppio regime secondo il quale alcuni dipendenti sarebbero obbligati a prestare attività lavorativa per quattro giorni a settimana mentre la restante parte della forza lavoro continuerebbe a lavorare per cinque giorni settimanali. In questo scenario sarebbe molto facile andare incontro a diverse discriminazioni: un bonus legato alle presenze di importo inferiore, meno giorni di ferie, il rischio di essere emarginati dai colleghi che lavorano di più. È molto importante accompagnare la transizione rafforzando le tutele contro le discriminazioni sul luogo di lavoro. L’Italia, con i rapporti di lavoro part time, sta già vivendo una sorta di segregazione nel mercato del lavoro. Evitare di costruirne di nuove potrebbe essere una buona idea.
Il declino del sindacato, soprattutto se osservato dalle giovani generazioni, è un elemento di criticità che non aiuta certo a conquistare diritti. Circa la metà degli iscritti alle organizzazioni sindacali sono ormai pensionati. L’individualismo a cui siamo arrivati non ci consente di arrivare efficacemente alla conquista dei diritti collettivi. Spesso ci si limita ad auspicare un intervento delle aziende virtuose che dovrebbe produrre un effetto volano su tutti i lavoratori, sfruttando la reputazione delle società leader e la loro posizione sul mercato. Ma le leggi esistenti sull’orario di lavoro, lo Statuto dei lavoratori, le norme che regolano i licenziamenti collettivi sono arrivate grazie alla pressione esercitata dai rappresentanti. L’unione fa la forza è sicuramente un principio che nel lavoro vale più che in altri contesti.
Per lavorare meglio, ormai sembra chiaro che bisogna lavorare meno. Raggiungere l’obiettivo richiede però uno sforzo collettivo che un tempo si sarebbe raggiunto solo attraverso le organizzazioni sindacali tradizionali. Oggi le forme di aggregazione sociale sono molto diverse e sono soprattutto molto frammentarie. Per conquistare diritti però bisogna restare uniti. I giovani, non molti, che hanno la fortuna di avere un’occupazione stabile in Italia hanno la possibilità di unirsi per chiedere condizioni di lavoro migliori per loro e per chi ancora deve trovare un lavoro. Con la rivoluzione tecnologica ci è stato promesso un formidabile miglioramento delle nostre condizioni di vita. È arrivato il momento di prenderci quello che è nostro, convincendo le imprese che il loro successo passa anche attraverso il nostro benessere.