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Il 13 febbraio 2023 è stata pubblicata la seconda edizione del Corporate Climate Responsibility Monitor, report sviluppato da Carbon Market Watch in collaborazione con il NewClimate Institute, che valuta l’integrità delle strategie climatiche di diverse multinazionali. L’analisi si è concentrata su 24 grandi società provenienti da un’ampia varietà di Paesi, che si sono cucite addosso il ruolo di protagonisti nella lotta al cambiamento climatico. Le aziende appartengono a diversi settori: moda, automotive, agricoltura, tecnologia e aeronautica. La maggior parte non sta rispettando gli impegni presi e gli obiettivi raggiunti non sono in grado di essere realmente incisivi.

Le società analizzate raggiungono da sole il 10% del fatturato delle 500 più grandi multinazionali al mondo e sono responsabili di circa il 4% delle emissioni globali, pari a circa 2,2 Gt CO2 l’anno. Il Corporate Climate Responsibility Monitor è estremamente dettagliato e non tralascia nessun aspetto, identificando i vari profili delle aziende in una scala di integrità che va da “alta” a “molto bassa”, passando per “ragionevole” e “moderata”. Come si può notare dalla tabella pubblicata sul sito di Carbon Market Watch (vedi grafica), nessuno dei piani climatici delle 24 aziende ha ricevuto un punteggio di “alta integrità”. Solo una società, il gigante danese delle spedizioni Maersk, ha ottenuto una classifica di “ragionevole integrità”. Apple, ArcelorMittal, Google, H&M Group, Holcim, Microsoft, Stellantis e Thyssenkrupp sono riuscite tutte a ottenere un punteggio di “moderata integrità”, mentre le restanti 15 società hanno oscillato tra basso e molto basso.

Si definiscono “carbon neutral”, ma è soltanto fumo negli occhi

Gli obiettivi net-zero danno l’impressione che le emissioni si avvicineranno a zero o quasi a zero, ma la realtà è ben diversa. L’inadeguatezza delle strategie emerge sia nel medio che nel lungo termine. Per quanto riguarda il primo, le società analizzate hanno un impegno per il 2030 fornendo una riduzione di un bassissimo 15% delle loro emissioni reali. Questo è totalmente insufficiente, considerando quanto il mondo ha bisogno di quasi dimezzare la sua impronta di carbonio per mantenere l’aumento della temperatura entro i 1,5°C considerati relativamente sicuri. Sul lungo periodo lo scenario è quasi lo stesso. Entro il 2050, le aziende dovranno aver ridotto le proprie emissioni del 90-95% rispetto ai livelli attuali. Tuttavia, il CCRM calcola che, presi insieme, gli impegni netti delle 24 società ammontano a un misero 36% entro la metà del secolo.

La questione su cui soffermare particolare attenzione è la volontà di 3/4 delle società di compensare o neutralizzare una parte significativa delle loro emissioni utilizzando crediti di carbonio derivanti da progetti forestali e altri progetti di utilizzo del suolo. Sam Van Den Plas, Policy Director di CMW, ha affermato che “non solo queste soluzioni immagazzinano il carbonio temporaneamente e sono vulnerabili alle inversioni, ma avremmo bisogno di un secondo pianeta Terra per assorbire le emissioni globali se tutti decidessero di compensare come queste società”.  Le imprese non agiscono realmente per modificare in modo consistente il loro impatto ambientale, ma gettano fumo negli occhi inserendo affermazioni come “carbon neutral” per descrivere il piano di azione dei prossimi anni. “Tutto ciò è estremamente dannoso, si da l’illusione che le aziende stiano intraprendendo operazioni serie per affrontare la crisi climatica quando, in realtà, stanno nascondendo il problema sotto il tappeto e lasciando che siano gli altri e le generazioni future a ripulire il loro casino”. spiega Gilles Dufrasne, Lead on Global Carbon Markets di CMW.

Lindsay Otis, esperta di politiche sui mercati globali del carbonio presso Carbon Market Watch, si è espressa per spiegare quale dovrebbe essere la giusta linea da seguire per evitare che queste aziende possano continuare la loro campagna di greenwashing, invitando governi e istituzioni a prendere delle serie e incisive decisioni per invertire la rotta: “Facendo affermazioni così stravaganti, queste società non solo fuorviano consumatori e investitori, ma si stanno aprendo a una crescente responsabilità legale e reputazionale. I governi devono agire ora per impedire alle aziende di fare queste affermazioni false e dannose. Da parte loro, le società devono smetterla di affermare di poter inequivocabilmente annullare il loro impatto climatico dannoso semplicemente acquistando crediti di carbonio invece di ridurre le proprie emissioni. Quando acquistano i crediti, queste aziende devono comunicare accuratamente ai consumatori in cosa consiste veramente questa azione: un contributo, o una donazione, a un progetto di mitigazione e non una neutralizzazione delle emissioni”. Il ricorso alla compensazione è molto diffuso nei vari piani climatici. Infatti, la maggior parte delle aziende, come Apple, ad esempio, prevedono di affidarsi in gran parte alla compensazione attraverso progetti legati alla silvicoltura e all’uso del suolo. Questo approccio è problematico per due motivi fondamentali: il primo concerne il processo di stoccaggio del carbonio biogenico (cioè di quella CO2 prodotta da fonti naturali, non antropiche), che si rivela inadatto a compensare le emissioni a causa dell’imprevedibilità degli eventi naturali che potrebbero danneggiare le strutture di stoccaggio; il secondo motivo ha a che vedere con la domanda di crediti di carbonio implicita nei piani di queste aziende che, allo stato attuale, richiederebbe dal doppio al quadruplo delle risorse della Terra, soprattutto se l’approccio viene condiviso da altre imprese. (Come spiegato in questo articolo su altreconomia.it).

“L’Unione Europea ha un’occasione d’oro per limitare questa forma di greenwashing aziendale e costituire un esempio da emulare per altri governi.” – afferma Lindsay Otis –  “L’istituzione dell’UE sta aggiornando la legislazione sulla protezione dei consumatori per proteggere meglio i consumatori da queste diffuse pratiche di greenwashing. Tuttavia, le proposte sul tavolo non vanno abbastanza lontano per porre fine a queste affermazioni ingannevoli. Pertanto, i responsabili politici dell’UE devono istituire un divieto totale su tutte le affermazioni di neutralità climatica o ambientale o variazioni correlate, come “carbon neutral”, “CO2 neutral”, “climate positive”, “net zero”, eccetera.

Per questo motivo, Carbon Market Watch e altre ONG (tra cui Client Earth, ECOS e EEB) hanno inviato una lettera aperta alle istituzioni dell’UE esortandole a mettere in atto un divieto assoluto al fine di proteggere consumatori e per “consentire loro di comprendere e abbracciare il loro ruolo nella transizione verde dell’Europa”.

Non è tutto “Greenwashing”, l’esempio di Maersk

Il Gruppo Stellantis, H&M, Apple sono le aziende che sono riuscite a raggiungere un risultato mediamente soddisfacente per il loro impegno nella lotta al cambiamento climatico. Il migliore risulta essere il colosso danese Maersk, che opera principalmente nel trasporto marittimo. Nel 2021 ha infatti ordinato 8 navi portacontainer oceaniche alimentate con metanolo, alla Hyundai Heavy Industries (HHI); la prima flotta è prevista per il primo trimestre del 2024.

Inoltre, la controllata Maersk Supply Service, sta lanciando Stillstrom, una nuova sussidiaria dedicata allo sviluppo di boe per la ricarica elettrica offshore. L’energia incamerata servirebbe per tutte le operazioni a bordo, permettendo di spegnere i motori endotermici e, nel caso delle navi ibride, fornirebbe anche la propulsione per le manovre in prossimità della terraferma.

Alcune aziende stanno cercando di prendere delle decisioni che possano realmente influire nella riduzione delle emissioni. Dhl sta investendo nell’elettrificazione della propria flotta e nell’aumento della produzione di combustibili a basse emissioni di carbonio per il trasporto stradale, marittimo e aereo, Apple sta adottando misure per rendere più accessibili ai propri fornitori opzioni di approvvigionamento tramite energia rinnovabile di alta qualità, oltre a implementare misure per estendere la durata di vita dei dispositivi.

Greenwashing e la reputazione: il costo elevato delle menzogne

Il rischio reputazionale è attualmente così elevato da esercitare significative pressioni sulle aziende, spingendole ad adeguarsi al recente trend relativo alla sostenibilità e ad attuare comportamenti responsabili. Questo porta un gran numero di aziende ad azioni di greenwashing, allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente imputabili alle proprie attività o ai propri prodotti. Sempre più spesso le aziende che attuano questa strategia ne pagano le conseguenze, apparendo per quello che sono, poiché è sempre più difficile, nell’epoca del digitale e dell’informazione 2.0, ingannare i propri pubblici. Il report eseguito da Carbon Market Watch in collaborazione con il NewClimate Institute ne è una prova evidente. I vari stakeholder coglieranno la distonia tra quello che l’azienda cerca di comunicare e il suo operato, e di conseguenza, l’organizzazione subirà un danno reputazionale, con gravi ripercussioni anche dal punto di vista economico. Ecco perché il greenwashing è devastante per un’azienda. Nell’era del web 2.0, in un mondo in cui una menzogna – qualsiasi menzogna – viene puntualmente e sempre più in fretta svelata da un blogger, rilanciata sui social network, e punita infine nelle corsie del supermercato, fare greenwashing significa prendere in giro i clienti, disseminare di bugie quelle “conversazioni” che sono divenuti i mercati.

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