La divulgazione della scienza, sia a livello di informazione che di comunicazione, è certamente un lavoro complesso. Trasferire a pubblici generalisti studi pubblicati su riviste specializzate senza strumentalizzare la notizia può rivelarsi più difficile di quanto si pensi, al punto che il risultato può essere totalmente distorto dall’originale. Ma qual è il ruolo dei relatori pubblici in questo processo? Etica ed autenticità vengono realmente applicate nel concreto? La riflessione di Luca Poma.
Dieci giorni fa, un bell’articolo del ricercatore Paolo Vineis, nello staff del prestigioso Imperial College di Londra, denunciava la scarsa affidabilità degli organi di stampa nel riprendere e amplificare gli studi pubblicati dalle riviste scientifiche internazionali.
Secondo Vineis, è, ad esempio, assurdo ipotizzare che l’uso anche smodato di biscotti possa causare il cancro, come invece recentemente pubblicato da diversi quotidiani. Il punto non è tanto l’affidabilità della ricerca all’origine, ma piuttosto come essa viene strumentalizzata per costruire una “notizia a tutti costi”, estrapolandone parti fuori contesto e senza preoccuparsi di “dettagli” come la percezione biologica del nesso causale.
La riflessione di Vineis evidenzia un problema che esiste da sempre, e che da sempre è – volutamente? – sottostimato se non ignorato dalla maggior parte dei giornalisti ma anche dai coloro che “mediano” la comunicazione: la complessità del trasferimento delle informazioni dalla stampa specializzata ai mess-media generalisti, informazioni spesso filtrate – non a caso – dai relatori pubblici e dai loro comunicati stampa, impegnati a sostenere questa o quella tesi nell’interesse della mandante di turno.
Un grande classico è quello dell’industria del tabacco, che per decenni ha tenuto a libro paga fior di ricercatori, distorcendo i risultati dei test, pilotando la comunicazione sui giornali e truffando – se non contribuendo ad uccidere – i consumatori di sigarette.
Ma quella del tabacco è solo la punta dell’iceberg: che dire di lavori giustamente sospettati di grave pregiudizio editoriale, ma ampiamente promossi da alcuni uffici stampa e pedissequamente ripresi dai media, che tentano di smentire la cancerogenicità di diversi elementi chimici potenzialmente pericolosi come la diossina?
Vineis, con grande coraggio, arriva a fare i nomi di due tra i più importanti “cartelli” di ricerca impegnati nel “confezionamento” di dossier finanziati da note multinazionali: Environ ed Exponent, precisando anche che alcuni membri di questi team sono italiani.
In vari casi recenti – come quello dello studio sulla presunta non pericolosità dell’acrilamide, un sottoprodotto della frittura delle patate, finanziato guarda caso da Fritolay, noto produttore di patatine fritte e junk-food – il problema del potenziale conflitto d’interessi assume contorni veramente eclatanti.
Queste tematiche chiamano in campo – per noi comunicatori e relatori pubblici – keyword come “autenticità”, “etica”, “manipolazione del reale”.
Pur tuttavia, il confine tra ciò che è lecito e ciò che è opportuno fare se si desidera mantenere un adeguato standard etico nella professione, è a volte assai labile.
E’ lecito che una multinazionale commissioni una ricerca. E’ lecito che – se emerge un risultato anche solo in minima parte favorevole – esso venga stralciato dalle conclusioni della ricerca e debitamente amplificato dalla mandante. E’ lecito che l’ufficio stampa – che non fa che prendere atto del lavoro dei ricercatori, o di parte di esso – dia la massima enfasi possibile alla notizia. Ed è lecito che un giornale generalista – al quale certamente non si può caricare l’onere della verifica di una fonte specialistica – pubblichi le evidenze prodotte dall’ufficio stampa.
Tutto ciò è lecito, ma è appunto anche opportuno? Quali sono i limiti che noi stessi addetti ai lavori potremmo e dovremmo darci nell’espletamento del nostro mandato? L’importante è ottenere articoli a favore della committente, anche a costo di non garantire al lettore finale una visione realmente autentica del messaggio? In un ottica di relazione con i nostri stakeholder, siamo convinti sia profittevole nel medio – lungo termine sacrificare la nostra credibilità di mediatori della comunicazione sull’altare di un mandato professionale?
Sono certo di conoscere le risposte che ognuno di noi darebbe in astratto, se coinvolto in un dibattito su queste tematiche. Non sono però così certo che esse coinciderebbero in toto con le scelte che faremmo nel privato del nostro studio professionale, dinnanzi a una parcella ricca e con pagamento a presentazione fattura.