Ovunque, Italia compresa, è boom di antidepressivi. Ma siamo sicuri che il mal di vivere sia una patologia? E, sopratutto, che sia curabile con i farmaci? Uno psicoterapeuta americano smonta queste certezze in un libro.
‘Il comune raffreddore della malattia mentale’: l’Oms definisce così la depressione, stimolando sia la seconda causa di validità nel mondo. E pare davvero un’epidemia dilagante, a giudicare dal consumo di farmaci contro il “male oscuro”: solo in Italia, nell’ultimo decennio, è triplicata la vendita di psicofarmaci (+310 per cento), come conferma il rapporto Osserva-salute. Queste cifre suonano talmente incontrovertibili che pare assurdo chiedersi come ci siano arrivati? Com’è che oggi è normale considerare l’infelicità una malattia? Questi interrogativi se li pone invece Gary Greenberg, psicoterapeuta americano, in storia segreta del male oscuro (Bollati Boringhieri). Lui, che la depressione l’ha sperimentata anche da paziente, e ha pure partecipato a uno studio clinico come “cavia” per l’ennesimo trattamento, apre squarci illuminanti sull’”invenzione” (come la definisce) di una malattia per cui oggi si spendono 20 miliardi di dollari l’anno in cure. La sua non è solo, o non tanto, un’accusa a Big Pharm. I pezzi grossi dell’industri, scrive, fanno ciò che devono: “Fanno cavalcare l’onda dei tempi alle loro aziende”. E i tempi hanno fornito legioni di consumatori cui vendere antidepressivi: “Persone convinte che i medici debbano curare la loro infelicità”. La stupiscono i nuovi dati sul consumo di antidepressivi in Italia? Questo andamento, un aumento del consumo di antidepressivi e delle prescrizioni, soprattutto da parte dei medici di base, è lo stesso che da anni c’è negli Stati Uniti. Contribuiscono vari fattori. Un paziente che conosce qualcuno che prende antidepressivi è più probabile li chieda a sua volta. Ne risulta una sorta di contagio: la domanda accresce la domanda e le vendite si impennano. Così non solo sempre più persone prendono gli antidepressivi, ma sempre più sono convinte che la loro infelicità sia una malattia. Invece non lo è? Non penso sia una malattia che dicono gli psichiatri. I medici sostengono che è causata da uno squilibrio chimico nel cervello, cosa non dimostrata. E, ammesso sia vero che alcune persone soffrono di una depressione provocata da uno squilibrio chimico, sono molte meno di quante si dice. Lei afferma che la depressione è stata inventata. Come e perchè? Nell’Ottocento si individuarono le cause di alcune malattie e si affermò il concetto di “pallottola magica”: un farmaco che mira al bersaglio ed elimina l’origine stessa della malattia. Un modello valido per le malattie infettive e che si è cercato di applicare alle presunte cause biochimiche della nostra sofferenza, dove però funziona assai meno bene. Poi si iniziarono a scoprire farmaci che influivano sull’umore. Fu un caso. Per esempio si vede che un farmaco antitubercolosi faceva sentire su di giri. Mentre di altri composti, nati come antistaminici, si osservò che avevano effetti inattesi sulla coscienza. Si pensò allora che il malessere psicologico doveva essere causato dal problema chimico su cui il farmaco agiva. Il trucco è stato convincere la gente che la loro infelicità è depressione, curabile con i farmaci . Non è stato una questione di farmaci, ma di diagnosi. Gli psichiatri sono superficiali con le diagnosi? Se i dottori fossero più attenti, forse verrebbero diagnosticate meno casi di depressione, ma non è questo il problema. Anche usando con scrupolo i criteri diagnostici si ottiene che una persona su cinque soffre di depressione o ne soffrirà: il 20 per cento della popolazione mondiale. Non sono vere queste cifre? Mettiamola così: mi fido dei numeri, credo che provengano da medici onesti che usano i criteri diagnostici in modo competente. La domanda è: cosa facciamo con questi dati? Si può concludere che c’è un epidemia di depressione, ed è la conclusione che molti psichiatri e le industri farmaceutiche vogliono che raggiungiamo. Se depressione vuol dire “sofferenza significativa”, molti ne soffrono. Ma c’è un altro modo di guardare alla questione: cosa significa che tante persone sono significativamente infelici? Che c’è un epidemia di questo squilibrio biochimico? O significa solo che la vita è dura, e vorremmo che non lo fosse? Lei che cosa pensa significhi? Sono confuso sull’argomento come tutti. Forse, tra le difficoltà della nostra esistenza, che include mortalità, dolore, perdita e le particolari circostanze della vita nel mondo industrializzato, vale la pensa considerare la possibilità che una delle ragioni per cui soffriamo sia proprio la natura della nostra società. Oggi c’è molta pressione su tutti noi affinché ci sentiamo soddisfatti della vita. Si suppone che non sentirsi bene sia non solo spiacevole, ma patologico. Fino a non molto tempo fa non era così. Non vorrei certo ritornare a quel tempo, ma forse bisogna chiedersi se non abbiamo aspettative sulla vita impossibili da soddisfare. Gli antidepressivi in qualche modo ci aiutano a colmare la distanza. È la società dei consumi: quando qualcosa ci manca, usciamo e la compriamo. Dunque non c’è un’epidemia di depressione, ma di tristezza? Direi di infelicità, malcontento. E i farmaci non sono la soluzione? Non sono contro gli antidepressivi. Per alcune persone fanno una gran differenza. È però vero che le nostre aspettative sui farmaci dipendono molto da come ci vengono proposti. Dire “questa medicina aggiusta il tuo squilibrio biochimico, la devi prendere come i diabetici prendono l’insulina” è diverso dal dire “ti aiuterà a sopportare il tuo matrimonio disastroso”. Mi preoccupa di più il significato che le persone traggono dai farmaci del fatto se li prendono o no. Mi preoccupa che i farmaci ci rendano, in un certo senso, compiacenti: le cose che ci facevano arrabbiare non ci fanno arrabbiare più. Queste pillole ci desensibilizzano e quando, come negli Stati Uniti, le prende il 10-15 per cento della popolazione, è un po’ inquietante.