Cosa indossi?! Cosa si cela dietro gli abiti che tanto desideriamo quando passiamo davanti le vetrine in cui sono esposti? Domande che il consumatore, sempre più critico, inizia a porsi sempre più spesso.
“Nel 2005 qualcosa è cambiato nello scenario mondiale: con la fine dell’Accordo Multifibre, che regolava gli scambi del tessile-abbigliamento fra Paesi attraverso un sistema di quote assegnate a ciascun Paese, l’Organizzazione Mondiale del Commercio ha liberalizzato gli scambi mondiali e l’intero settore è entrato in un regime di competizione totale.” Tratto da “I VESTITI NUOVI DEL CONSUMATORE” di Deborah Lucchetti, Altraeconomia edizioni.
L’apertura delle frontiere; la corsa ai profitti più alti; la moda in continua evoluzione; la società occidentale e i suoi principi; la voglia di cambiarsi (d’abito) continuamente, di sentirsi belle/i e sempre al passo con i tempi; questi sono stati gli ingredienti più comuni di quella torta tanto appetitosa chiamata “consumismo” che nella moda ha generato la fast fashion “la moda usa-e-getta che si consuma in fretta e costa poco al consumatore, ma molto in termini di impatto ambientale e sociale“.
Che il mondo dell’industria tessile sia caratterizzato da manodopera sfruttata a costi bassissimi, quasi impercettibili sul prezzo finale, è noto alla comunità mondiale; anche se tutti noi ce ne dimentichiamo quando, passando davanti ai negozi, veniamo folgorati da colori e disegni irresistibili. Stoffe, colore, style.. tutto appare perfetto, immancabile nel nostro guardaroba!
Negozi così invitanti, così ospitali, così fashion, ci fanno dimenticare quello che si nasconde dietro le grandi aziende tessili.
Tutti sappiamo che quel bel vestito nel nostro armadio è stato realizzato dai cosiddetti “working poors“, ovvero uomini, donne e bambini costretti a lavorare per 14 ore al giorno per paghe disumane, e costretti a subire quotidianamente la violazione dei loro diritti da essere umani e da lavoratori. La continua lotta per la massimizzazioni di profitti non ha mai fine e non conosce limiti; se gli stabilimenti possono esser soggetti a controlli e ispezioni, con le “navi fantasma” si riesce a tamponare ancor più il problema. Navi-officine che partono dalla Cina e sfruttano nuovi schiavi (di chissà quale origine geografica), i quali confezionano prodotti con etichette “Made-in-Bangladesh” per far poi rotta sugli scaffali dei grandi negozi. A cosa serve? Per aggirare i dazi doganali.
Ma non solo, sono note anche le varie battaglie contro la raccolta del cotone o il trattamento del jeans. Niente tiene conto del rispetto del lavoratore.
Lo sfruttamento del lavoro non è l’unico scheletro nell’armadio dei big del tessile: l’ambiente è l’altra vittima. Gli scarichi chimici hanno effetti devastanti ; “Circa 7.000 prodotti chimici finiscono dritti nelle falde acquifere, nel terreno e nell’aria, dato che spesso i Paesi emergenti verso i quali le imprese delocalizzano hanno legislazioni e controlli debolissimi in materia ambientale. “
Il consumatore finale non riesce a difendersi dagli effetti delle tossine che l’intera filiera tessile ha prodotto. Dermatiti e allergie sono in numero crescente tra le persone e le cause sono principalmente attribuiti a vestiti e accessori moda che per gusto e per piacere siamo spinti ad indossare.
Secondo un’indagine compiuta da Altroconsumo, da test svolti sono risultati che alcuni pigiami per bambini contenevano sostanze nocive per la salute dei più piccoli che li avrebbero indossati. I tre marchi sono Tezenis, Upim e Carrefour (per maggiori informazioni: Sostanze tossico nocive negli abitini per bambini)
Riassumere in questo breve articolo tutto il “non detto” del mondo del tessile sarebbe impossibile (per spazio e conoscenze).
Però vale la pena soffermarsi sui modi di acquisto alternativi che si stanno espandendo con forza.
Forse, sicuramente, avrete già sentito parlare di moda critica; gli acquirenti sono stanchi di sostenere la distribuzione di massa, che beneficia pochi e danneggia molti. Si presta sempre più attenzione a cosa si indossa; vogliamo sapere quel che indossiamo!
La moda solidale, ad esempio, (che deriva dal commercio equo e solidale –http://it.wikipedia.org/wiki/Commercio_equo_e_solidale) permette un margine equo al produttore e un prezzo trasparente al consumatore.
Il mercato dell’usato sta aumentando sensibilmente il suo seguito; il vintage ha assunto un peso notevole nella moda tanto da influenzare gli stilisti moderni e purtroppo i prezzi ne hanno risentito, arrivando alle stelle! Ma non è l’unico modo per poter vestire usato: ci sono moltissimi mercatini delle pulci, piccoli store dell’usato dover poter fare ottimi affari senza dover incrementare la speculazione nel mercato del tessile. I “jeans invecchiati”, l’effettoretrò tanto richiesto dai clienti, ma la cui produzione causa vittime per silicosi, potrebbero esser indossati senza produrre morti se al nuovo scegliessimo il vecchio.
Lo Swap Party o mercatini del baratto, sono valide alternative di consumi, dove ci si può scambiare ciò che non mettiamo più con quelli di altre persone. L’abito in perfette condizioni, ma in disuso per qualsiasi motivo, torna ad aver nuova vita nell’armadio di un’altra persona a cui quel capo piace!
La Moda Ecologica la quale sfrutta cotoni biologici e tessuti naturali, quali la canapa (per gli abiti) o sughero (per le scarpe); tali materiali rispettano l’ecosistema ambientale e la salute dell’uomo seguendo principi di produzione etici.
La Moda del Riciclo è un ottimo modo per ridurre gli scarti e i consumi, rinnovando continuamente dando vita nuova alle vecchie cose demodè.
Non importa sceglierne uno, tutti questi modelli alternativi di consumo possono esser combinati rispondendo ai criteri di sostenibilità.
La sostenibilità delle 3r: RIDUCI, RIUSA, RICICLA!
*per saperne di più, vi consiglio le edizioni Altreconomia e Terre di Mezzo.