La rivoluzione digitale ha soddisfatto il bisogno di immediatezza della società democratica, che mal tollera l’incertezza nel processo decisionale, ma ha compresso eccessivamente i tempi di riflessione critica sull’informazione, distorcendo la distinzione tra vero e falso.
Ciò ha permesso che i social media si strutturassero come luoghi di veridizione, di formazione della verità, con logiche di mercato. Come il vero prezzo è legato naturalmente a domanda e offerta, così sui social l’informazione acquista il crisma della verità secondo il numero di condivisioni o like che ottiene. La mera diffusione funge da autopoiesi delle fonti, avulsa da ogni analisi critica sulla effettiva veridicità della notizia.
Si è così agevolata la diffusione di fake news, specie se per guadagno pubblicitario o per influenzare processi e decisioni politiche di uno Stato.
Democrazia rappresentativa e democrazia liquida
I social hanno aperto alla democrazia liquida, nella quale l’elettore ha il potere di controllare come il suo voto viene speso dal rappresentante in relazione ad ogni proposta legislativa, ed eventualmente riassegnarlo.
Si coniugano così i principi della democrazia rappresentativa e le istanze di partecipazione di quella diretta, specie nei sistemi di e-voting, la cui immediatezza permette votazioni, dal carattere referendario, su un numero potenzialmente infinito di proposte legislative.
Ciò comporta un rischio specifico: in assenza di tempi funzionali ad un’analisi critica, tali votazioni diverrebbero dei plebisciti, legati al sentiment dell’elettorato e ai rapidi tempi di reazione propri del web, impedendo all’elettore di testare la veridicità dell’informazione. Così, nel meccanismo di veridizione summenzionato, anche delle fake news verrebbero assunte come vere, e come base di decisioni politiche. Ciò influirebbe sulla governabilità e sulla stabilità della democrazia, precludendo alla minoranza un effettivo potere di opposizione in tali decisioni-lampo, e aprendo ad un totalitarismo della maggioranza di turno.
Il meccanismo di veridizione dei social viene sfruttato da opinion leader che canalizzano gli orientamenti politici, grazie all’azione di software informatici.
Esempio ne è il software ‘la Bestia’, utilizzato dallo staff comunicativo del leader della Lega Matteo Salvini per analizzare le interazioni degli utenti e consigliare post o tweet, al fine di polarizzare il sentiment degli utenti. Così si riesce a far leva su emozioni basilari e argomenti conflittuali, con cui dividere l’opinione pubblica in ‘buona e vera’, se conforme alla notizia veicolata, oppure ‘cattiva e falsa’, delegittimando le opinioni divergenti.
Tuttavia, al di là della dubbia etica pubblica che la ispira, e del rischio di esasperare le divisioni sociali, tale strategia politica può ritenersi espressione di democrazia. Una deriva autoritaria, fuori e contro il sistema democratico, pare, seppur non impossibile, allo stato attuale quanto meno improbabile, data l’alta burocratizzazione ed interdipendenza delle società europee.
Cyberwarfare e Digital Authoritarianism
L’odierno scenario di cyberwarfare, legato alla disinformazione, costituisce, invece, un attuale rischio per la democrazia e la libertà d’espressione.
Emblematici sono l’elezione di Donald Trump e il referendum sulla Brexit: eventi in cui la Russia avrebbe etero-diretto l’opinione pubblica dei due Paesi mediante diffusione di fake news.
Ciò sarebbe avvenuto anche grazie all’attività di Cambridge Analytica di microtargeting comportamentale, alla policy di scarsa trasparenza di Facebook sulla fonte e sul finanziamento dei contenuti politici sul sito, nonché al filter bubble, meccanismo per cui ogni utente visualizza contenuti altamente omogenei, basati sulle proprie interazioni sul social, con effetto di restringerne l’orizzonte informativo.
A tale intrusione nella libertà d’espressione degli utenti e nella sicurezza nazionale, gli Stati hanno risposto censurando la disinformazione sui social, nella pretesa impossibile di definire normativamente il falso, e assumendo un ruolo di guida nella verità, che deve rimanergli estraneo in un’ottica democratica.
Normative di digital authoritarianism, restrittive della libertà online, si sono diffuse negli stati europei. È, però, soprattutto in Russia e Cina, che il diritto di espressione è abolito da una capillare censura in rete, e si impone uno spazio online isolato dal resto del mondo.
Alcune possibili soluzioni democratiche
L’unica soluzione possibile sembra quella per cui “i mali della democrazia si curano con più democrazia”.
In tal senso, si dovrebbero sfruttare le potenzialità dei social, cercando di ridurne la funzione di veridizione, attraverso un sistema integrato di private and public enforcement, in cui:
- i gestori dei social predispongono meccanismi di segnalazione della disinformazione e compiono una verifica ponderata delle segnalazioni, per scongiurarne un uso distorto. Inoltre, essi dovrebbero consentire che l’utente possa graduare l’effetto del filter bubble, per ampliare il proprio orizzonte informativo.
- agli utenti deve essere lasciato il controllo interno, senza potere di censura, attraverso l’opera indipendente di debunking e fact-checking. Tale meccanismo dovrebbe essere potenziato, per evitare errori, mediante l’azione integrata dei media tradizionali, sia quale supporto informativo nell’indagine sulla falsità dell’informazione, sia quale cassa di risonanza dell’esito dell’indagine, per minimizzare l’effetto distorsivo della disinformazione.