Appellarsi ai consumatori, non alla politica: questa la scelta dei lavoratori sottopagati del colosso tedesco per la consegna di cibo online. Una scelta che dimostra come ormai si voti anche con la carta di credito. E che il potere del consumatore è enorme, se impara a usarlo
Oggi non si vota più solo nelle cabine elettorali. E forse non è solo l’indifferenza ad aver svuotato di senso le elezioni e le istituzioni democratiche. È anche la fine di un monopolio. Perché oggi si vota pure coi piedi, andandosene, cercando un Paese a misura delle proprie ambizioni e delle proprie necessità, perlomeno fino a che sarà consentito farlo. E si vota pure con la carta di credito – o col portafoglio, se preferite, come dice l’economista Leonardo Becchetti – comprando beni e servizi che rispondano ai propri valori, al bisogno di costruire una relazione attraverso l’acquisto, al sentirsi parte di una comunità.
Aria fritta? Forse. Ma con ogni probabilità oggi non esisterebbe Eataly se non ci fosse stata alle spalle una comunità come Slow Food, in grado di canonizzare un sistema di valori che è penetrato persino in una multinazionale come McDonald’s, cambiandone il modello di business. E le stesse realtà selezionate e presentate al Festival delle Comunità del Cambiamento promosso da Rena a Milano, raccontano proprio questo: che oggi per stare sulla frontiera dell’innovazione l’impresa – come dicono chiaramente economisti quali Stefano Micelli e Paolo Venturi – deve essere anche un attore sociale, ibrido, capace di costruire relazioni oltre che prodotti.
In altre parole, deve imparare a caricarsi sulle spalle il cambiamento della propria comunità di riferimento. Dal Laboratorio Creativo Geppetto, che offre soluzioni IoT alle imprese artigiane, a Maam – acronimo di “maternity as a master”, la maternità è un master: a proposito di #fertilityday – che propone alle grandi aziende percorsi di reinserimento ed empowerment professionale alle mamme lavoratrici. Da Eattiamo, che spedisce box di prodotti alimentari italiani, per promuovere il cibo made in Italy di qualità in America, al Progetto Quid, un marchio di moda che nasce da tessuti di qualità del miglior Made in Italy recuperati localmente per mano di donne con un passato di fragilità.
Il sottotesto politico non è banale: in quanto cittadini, il potere che abbiamo perso da elettori e lavoratori ci è stato restituito in quanto consumatori. Ed è un potere enorme, che i social network possono gonfiare a dismisura e del quale ancora non siamo del tutto consapevoli. Pensate al danno reputazionale per la Barilla dopo le frasi dell’amministratore delegato in difesa della famiglia tradizionale, ai guai che l’azienda ha dovuto sopportare per una protesta estemporanea, non certo organizzata. Pensate cosa potrebbe accadere se questo potere venisse compreso e utilizzato fino in fondo dai consumatori per promuovere o bocciare un marchio o un prodotto che non rispetta l’ambiente, i suoi lavoratori, i territori in cui opera.
Aria fritta? Forse. Ma con ogni probabilità oggi non esisterebbe Eataly se non ci fosse stata alle spalle una comunità come Slow Food, in grado di canonizzare un sistema di valori che è penetrato persino in una multinazionale come McDonald’s, cambiandone il modello di business. E le stesse realtà selezionate e presentate al Festival delle Comunità del Cambiamento promosso da Rena a Milano, raccontano proprio questo: che oggi per stare sulla frontiera dell’innovazione l’impresa – come dicono chiaramente economisti quali Stefano Micelli e Paolo Venturi – deve essere anche un attore sociale, ibrido, capace di costruire relazioni oltre che prodotti.
In altre parole, deve imparare a caricarsi sulle spalle il cambiamento della propria comunità di riferimento. Dal Laboratorio Creativo Geppetto, che offre soluzioni IoT alle imprese artigiane, a Maam – acronimo di “maternity as a master”, la maternità è un master: a proposito di #fertilityday – che propone alle grandi aziende percorsi di reinserimento ed empowerment professionale alle mamme lavoratrici. Da Eattiamo, che spedisce box di prodotti alimentari italiani, per promuovere il cibo made in Italy di qualità in America, al Progetto Quid, un marchio di moda che nasce da tessuti di qualità del miglior Made in Italy recuperati localmente per mano di donne con un passato di fragilità.
Il sottotesto politico non è banale: in quanto cittadini, il potere che abbiamo perso da elettori e lavoratori ci è stato restituito in quanto consumatori. Ed è un potere enorme, che i social network possono gonfiare a dismisura e del quale ancora non siamo del tutto consapevoli. Pensate al danno reputazionale per la Barilla dopo le frasi dell’amministratore delegato in difesa della famiglia tradizionale, ai guai che l’azienda ha dovuto sopportare per una protesta estemporanea, non certo organizzata. Pensate cosa potrebbe accadere se questo potere venisse compreso e utilizzato fino in fondo dai consumatori per promuovere o bocciare un marchio o un prodotto che non rispetta l’ambiente, i suoi lavoratori, i territori in cui opera.
In quanto cittadini, il potere che abbiamo perso da elettori e lavoratori ci è stato restituito in quanto consumatori. Ed è un potere enorme, che i social network possono gonfiare a dismisura e del quale ancora non siamo del tutto consapevoli. Il caso Foodora ne è l’esempio
Il caso Foodora, in qualche modo, rappresenta un ulteriore passo in avanti, perlomeno in Italia, nell’acquisizione, di tale consapevolezza. Difficile non conosciate l’azienda tedesca, leader di mercato nella consegna di cibo a domicilio, o che mai abbiate incrociato uno dei suoi ciclisti in giacca fucsia. Succede che alcuni di loro, segnatamente quelli che lavorano a Torino, decidano di incrociare le braccia. Hanno tempi di consegna strettissimi e per rispettarli – e non essere “disattivati” – sono costretti a prendersi un bel po’ di rischi. Devono metterci loro bicicletta, telefono e pure il casco. Sono pagati malissimo, 2,70 euro a consegna – valore complessivo della startup: 3 miliardi di dollari, per la cronaca. E se qualcuno protesta, viene messo alla porta senza troppi complimenti.
Fino a qualche anno fa, o in altri contesti, la cosa sarebbe passata sotto silenzio. Oggi non più. Oggi di fronte ai numeri da capogiro dell’azienda tedesca non fa nemmeno sorridere la patetica – e pure un bel po’ ipocrita – giustificazione dei suoi amministratori italiani, che raccontano che lavorare per Fooodora sia «un’opportunità per chi ama andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio», come se sotto questa patina buonista in salsa sharing economy non si celi un rapporto di lavoro para-subordinato e per giunta sottopagato. E dietro quella disponibilità ad «ascoltare i ragazzi», non collettivamente ma «face to face» non si nasconda un tentativo nemmeno troppo velato di intimidazione.
Nel Paese della disoccupazione giovanile al 40%, della fuga dei cervelli e del record di giovani che né studiano né lavorano, il loro sciopero fa rumore, così come la loro campagna di boicottaggio dell’azienda per cui lavorano. Non è la prima volta che accade nel mondo – negli Usa la class action degli ex-autisti contro Uber ha fatto molto rumore – ma è il segnale di una nuova consapevolezza dei lavoratori. Magari sarà una bolla di sapone, ma finalmente hanno capito che per contare qualcosa devono rivolgersi al consumatore, non al parlamentare o al ministro. Di una cosa però siamo certi: c’è molta più politica qui che in tutta la campagna referendaria o in quella per eleggere il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America.
Fino a qualche anno fa, o in altri contesti, la cosa sarebbe passata sotto silenzio. Oggi non più. Oggi di fronte ai numeri da capogiro dell’azienda tedesca non fa nemmeno sorridere la patetica – e pure un bel po’ ipocrita – giustificazione dei suoi amministratori italiani, che raccontano che lavorare per Fooodora sia «un’opportunità per chi ama andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio», come se sotto questa patina buonista in salsa sharing economy non si celi un rapporto di lavoro para-subordinato e per giunta sottopagato. E dietro quella disponibilità ad «ascoltare i ragazzi», non collettivamente ma «face to face» non si nasconda un tentativo nemmeno troppo velato di intimidazione.
Nel Paese della disoccupazione giovanile al 40%, della fuga dei cervelli e del record di giovani che né studiano né lavorano, il loro sciopero fa rumore, così come la loro campagna di boicottaggio dell’azienda per cui lavorano. Non è la prima volta che accade nel mondo – negli Usa la class action degli ex-autisti contro Uber ha fatto molto rumore – ma è il segnale di una nuova consapevolezza dei lavoratori. Magari sarà una bolla di sapone, ma finalmente hanno capito che per contare qualcosa devono rivolgersi al consumatore, non al parlamentare o al ministro. Di una cosa però siamo certi: c’è molta più politica qui che in tutta la campagna referendaria o in quella per eleggere il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America.