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Sono oltre settemila le fabbriche di abbigliamento in Bangladesh, dopo la Cina il secondo Paese esportatore di prodotti di questo genere. Per un’economia povera in un territorio flagellato da una situazione idrogeologica tra le più sfavorevoli del pianeta si tratta di un segmento produttivo straordinariamente importante. A utilizzare questi opifici sono soprattutto i marchi del fast fashion, che raramente possiedono le fabbriche dei prodotti di cui necessitano le loro immense e voraci catene distributive. La quasi totalità della produzione di abbigliamento e calzature viene costruita dove la manodopera a buon mercato e una legislazione debole a proposito degli standard di sicurezza sul lavoro costituiscono un vantaggio straordinario per la produzione di oggetti di basso costo. Accade in Bangladesh, Pakistan, Vietnam e Cambogia. Dopo quanto accaduto dieci anni fa al Rana Plaza di Dhaka nessuno però ha potuto più ignorare il prezzo pagato laggiù per sostenere le proposte a getto continuo di capi di “tendenza” nelle vie dei centri urbani più ricchi del pianeta. Dieci anni dopo, le veglie commemorative dell’incidente si svolgono online e in tutto il mondo, comprese Dhaka, Londra e New York.

IL CROLLO DEL RANA PLAZA

La mattina del 24 aprile 2013, sono state più di 1100 le vittime del crollo dell’edificio di otto piani che ospitava cinque fabbriche di abbigliamento alla periferia di Dhaka. Il giorno prima del crollo nell’edificio si erano evidenziate crepe importanti, ma ai lavoratori era stato detto che si trattava di evidenze non rilevanti. Altri incidenti si erano peraltro già verificati in Bangladesh nel settore dell’abbigliamento, tra questi un incendio nella fabbrica di Tazreen nel novembre 2012, che causò 117 vittime.

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“Oltre cinquemila fabbriche di abbigliamento del Bangladesh non sono ancora soggette ad accordi o protezione

I NUOVI ACCORDI A TUTELA DEI LAVORATORI

Dopo il crollo di Rana Plaza molti marchi di moda hanno annunciato la creazione di accordi quinquennali per garantire la sicurezza dei lavoratori. Meno vincolante è l’Alleanza per la sicurezza dei lavoratori del Bangladesh, sottoscritto da marchi nordamericani come Walmart, Gap e Target. Più impegnativo l’accordo riguardante la sicurezza antincendio firmato a maggio 2013 tra proprietari di fabbriche, sindacati globali e marchi di abbigliamento europei come la spagnola Inditex (che significa Zara, Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius, Oysho, Zara Home e Uterqüe), l’inglese Primark e la svedese H&M. L’accordo prevede da un lato protocolli che le aziende produttrici sono tenute a seguire. dall’altro l’impossibilità per i marchi di tagliare i rapporti con i fornitori non diligenti e quindi l’obbligo di sostenere azioni correttive. Dal 2013 a oggi ci sono state 56mila ispezioni in 2400 fabbriche e più di 140mila problemi sono stati corretti. Più di recente è arrivato anche l’Accordo internazionale, firmato nel 2021 ed esteso anche al Pakistan, con l’adesione di 45 marchi.

MODA E INCIDENTI SUL LAVORO

Progressi ce ne sono stati, dunque. Tuttavia aziende americane che pure si riforniscono in maniera massiccia in queste zone (tra queste Levi’s, Gap e Amazon) non hanno firmato alcun accordo nonostante ne abbiano tratto i benefici. Oltre cinquemila fabbriche di abbigliamento del Bangladesh non sono ancora soggette ad accordi o protezione e quindi l’esistenza di molti dei 40 milioni di lavoratori impegnati in questo settore nel sud est-asiatico rimane precaria. E infatti gli incidenti non sono scomparsi del tutto. Lo scorso aprile quattro vigili del fuoco sono rimasti uccisi e quasi una dozzina feriti durante un incendio divampato in una fabbrica di abbigliamento di Karachi in Pakistan.

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