image_pdfVersione PDFimage_printStampa

La trama inizia a disvelarsi con l’inoltro di un’email alla mia casella di posta, il 2 febbraio 2021. Proviene dalla redazione di Osservatorio Diritti, testata online con cui spesso ho collaborato. L’oggetto è un’inchiesta che avevo scritto l’anno precedente. La pubblicazione, si legge, risale a «quasi un anno fa, quindi configura un profilo inadeguato». Il pezzo manca «di interesse sociale ad oggigiorno». Al netto dell’italiano un po’ traballante, il concetto è chiaro: la storia è vecchia e inattuale. La permanenza online delle notizie contenute nell’articolo, secondo l’obiezione del mittente, non è di alcun interesse e danneggia invece il protagonista dell’articolo a norma del Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr). Non è messa in discussione la verità dei fatti, quanto l’opportunità di rappresentarli in quel modo.

La missiva offre tre possibilità: la rimozione per intero dell’articolo, la deindicizzazione (ovvero l’oscuramento dell’articolo agli occhi dei motori di ricerca), oppure la sostituzione delle generalità dell’assistito con le iniziali di nome e cognome.

Il pezzo della discordia, in realtà, è estremamente attuale, specialmente allora: parla di Piero Amara, ex legale esterno di Eni. La procura di Milano sospetta che abbia ordito, con altri complici, una trama per far deragliare il processo Opl 245. Le parole di Amara in quei giorni stanno spaccando la procura di Milano. Amara è la fonte che nel 2018 ha cominciato a rivelare i contorni di una presunta Loggia Ungheria, un sistema di potere che avrebbe avuto una grande capacità di influenzare la vita politica e giudiziaria del Paese, decidendo nomine e arrivando, in qualche caso, a influenzare l’andamento dei processi. Almeno fino al suo primo arresto nel febbraio 2018, è stato un depistatore reo confesso. Ancora nel 2023, le deposizioni di Amara continuano ad avere conseguenze giudiziarie. Resta ancora indagato o imputato in diversi procedimenti per calunnia, corruzione e frode fiscale.

Ho letto e riletto la mail, insieme a Marco Ratti, il direttore di Osservatorio Diritti. Non avevamo mai ricevuto un’email simile prima. Da un lato ci preoccupava, dall’altro, però, ci sembrava quasi “spam”. La firma in calce suonava posticcia:

Per quale motivo qualcuno di uno sconosciuto dipartimento che sembra legato alla Commissione europea avrebbe dovuto mandare un’email del genere? Perché non era un avvocato a prendersi carico della richiesta? Abbiamo così cominciato a cercare: l’indirizzo porta a un coworking di Bruxelles; Abuse-report.eu è un dominio inesistente; l’unico Raùl Soto di cui si trova traccia online è un deputato cileno che fa l’avvocato. Dopo una consulenza della legale dell’Ordine dei giornalisti di Milano, Marco ha deciso di ignorare la richiesta. Non c’erano scorrettezze, la notizia era ancora attuale.

Presa la decisione, l’email è finita immediatamente nel dimenticatoio sia per me, sia per Marco Ratti. A rileggerla oggi, appare invece come un presagio: messaggi simili sono diventati col tempo pressoché settimanali. Arrivano alle caselle di posta personali dei giornalisti e alle email delle redazioni, compresa la nostra. A volte sembrano “spam”, come quella di Raùl Soto; a volte prima di identificare l’articolo da rimuovere, cercano di instaurare un rapporto con i giornalisti, come se si trattasse di un favore da chiedere a un amico. Ogni email, che sia legittima o pretestuosa, va vagliata, perché contestare gli articoli è un diritto e correggerli in caso di errore è un dovere per chi scrive. Esiste il pericolo che altrimenti restino online dei contenuti effettivamente lesivi.

Trattare con attenzione i dati personali e glissare sugli aspetti del passato che non sono rilevanti per l’opinione pubblica sono due comportamenti prescritti dal Testo unico dei doveri del giornalista. Capita che, dopo la valutazione, qualche richiesta venga ignorata o che il nostro avvocato suggerisca una replica per respingere la richiesta al mittente. In entrambi i casi, segue spesso uno strano silenzio da parte degli scriventi.

L’inerzia, in realtà, è solo apparente: c’è un lavorio sotterraneo sugli url – le sequenze di lettere e numeri che identificano univocamente una pagina web – di cui nemmeno gli autori degli articoli o le testate si accorgono. È teso a “screditare” agli occhi di Google le notizie contestate, quindi farle scendere nella classifica dei risultati forniti dai motori di ricerca. Il lavoro è legale, per quanto a volte discutibile: chi cura l’immagine pubblica di aziende e volti noti può trovarsi a cercare di giustificare scelte ingiustificabili o cercare di cancellare indelebili macchie del passato. A svolgerlo al mondo ci sono circa duemila agenzie di “web reputation”.

Solo che alcune, come quella dell’avatar Raùl Soto, adottano tecniche fraudolente per arrivare al loro obiettivo. Negli ultimi anni, l’azienda per cui “lavora” Soto non solo si è specializzata nel manipolare l’indicizzazione dei siti web, ma ha anche cercato in silenzio di acquisire una fetta del mondo dell’informazione. Ha anche gestito clienti “in subappalto”, senza che questi ultimi ne fossero al corrente. Per scoprirlo, però, c’è voluto un database di 50 mila documenti che Forbidden Stories, l’organizzazione che ha coordinato l’inchiesta #StoryKillers, ha messo a disposizione di oltre cento colleghi grazie al supporto tecnico di Occrp.

Invisibile, scomparso, anzi peggio, in seconda pagina di Google

Qurium – The media foundation è un’organizzazione non profit registrata in Svezia che si occupa di proteggere media indipendenti e attivisti nel campo dei diritti umani. Tord Lundström ne è il direttore tecnico ed è stato consulente di Forbidden Stories per #StoryKillers. Insieme ai suoi colleghi, ha scoperto che le email di Raùl Soto e di altri alias partivano sempre dall’Ucraina, da un’organizzazione che si chiama Eliminalia ed è stata fondata nel 2013 dal giovane imprenditore Diego Sanchez Jimenez, meglio conosciuto come Didac Sanchez. Nel gennaio di quest’anno ha cambiato nome in iData Protection.

La sede principale è in Spagna, gli uffici sono in Italia, Ucraina, Messico, Bolivia, Repubblica Dominicana, Ecuador, Georgia, Portogallo, Taiwan, Turchia, Svizzera, Gran Bretagna e Stati Uniti. In un volantino pubblicitario del 2018, dichiaravano di avere oltre 900 clienti da tutto il mondo e di aver rimosso «10.000 link». La controlla una holding con sede a Kyiv, in Ucraina, la Maidan Holding, a cui appartiene una galassia che conta oltre 50 società impegnate in vari settori, con sedi in nove giurisdizioni diverse. La Maidan Holding controlla una fondazione, una banca, una società di analisi dei contenuti online, uno studio legale, una società d’investigazione privata e, sorprendentemente, anche delle cliniche per madri surrogate.

«L’orientamento e il contenuto della maggior parte delle vostre domande dimostra un approccio fazioso e disonesto», è stata l’unica risposta che hanno ottenuto i giornalisti dalla società.

Di certo, la mission di Eliminalia è far sparire ciò che non è gradito ai propri clienti. Cancellarli non è l’unica strategia. Infatti un contenuto è tanto più “di valore” – cioè in grado di ottenere più click – quanto più appare in alto nei motori di ricerca: il 92,81% degli utenti desktop, infatti, clicca solo le strisce che si trovano nella prima pagina di Google e fa lo stesso l’84,22% di quelli mobile, secondo il rilevamento del 2019 di Advanced Web Ranking. Stabilire che cosa esce nella prima pagina di Google significa quindi decidere che cosa la stragrande maggioranza della popolazione leggerà di un determinato tema.

Se Google fosse la Borsa dei contenuti online, quindi, le chiavi di ricerca sarebbero diversi listini “chiusi”, mentre gli url sarebbero i titoli azionari. Coloro i quali fanno scendere e salire le quotazioni degli url, gli operatori della Borsa di Google, sono i reputation manager. Secondo la percezione comune, l’algoritmo che stabilisce la classifica dei risultati del motore di ricerca è una cabala misteriosa. Almeno in parte, in realtà, esistono strumenti tecnici, come certi accorgimenti nel linguaggio o l’uso di certe parole chiave, che possono rendere un tema più o meno interessante per il motore di ricerca.

Un’altra credenza è che siano i personaggi popolari – i cosiddetti influencer – a rendere “virale” un contenuto. È vero per l’istante, ma non per il lungo periodo. I reputation manager sono i veri influencer di internet, professionisti che lavorano affinché i contenuti permangano stabilmente nella prima pagina dei risultati, e possibilmente fra i primi tre; sono ingegneri reputazionali, strateghi della comunicazione, broker che “vendono” al motore di ricerca le pagine web con i contenuti che più aggradano ai loro clienti.

Ma la Borsa ha impiegato secoli prima di dotarsi di un regolamento interno che proibisse la manipolazione del mercato, mentre internet solo adesso si sta accorgendo di quanto sia facile dirottare l’opinione pubblica dentro il mare delle pagine e post, troppo esteso e tempestoso per essere scandagliato in ogni angolo. Per ora quindi gli interventi sui motori di ricerca che abbiamo potuto rilevare non possono essere definiti illegali: sono acque ancora inesplorate, dove si sono avventurati solo alcuni pionieri.

Riciclatori di reputazione

I segreti di Eliminalia sono stati svelati attraverso un database di 50 mila contratti, scambi di email, screenshot di richieste a testate e piattaforme online per rimuovere contenuti e altri documenti. Al loro interno sono nominati circa 1.500 clienti provenienti da una cinquantina di Paesi, datati per lo più tra 2017 e 2021. Dai dati, emerge che per rimuovere un singolo link si pagano cifre tra duecento e duemila euro, a seconda dei casi. Ci sono 25 clienti che hanno sborsato più di 50 mila euro per ripulire la rete dal loro nome.

Tra i clienti stranieri ci sono banchieri condannati per riciclaggio, corruttori, trafficanti di droga, uomini dello spettacolo accusati di molestie sessuali, professionisti coinvolti in frodi finanziarie internazionali. Tra le banche, due casi rilevanti riguardano la Compagnie Bancaire Helvetique e Bandenia Plc: la prima è stata accusata di non aver impedito alcune operazioni di riciclaggio di denaro sporco, il direttore della seconda è stato condannato a quattro anni di carcere per aver ripulito i soldi di una trafficante di droga a settembre 2022. Ci sono imprenditori con un passato controverso. Ci sono riciclatori di denaro sporco.


Le sfumature dell’oblio

Il General data protection regulation (Gdpr) è un regolamento europeo che disciplina il trattamento e la circolazione dei dati personali di cittadini e organizzazioni. In vigore dal 25 maggio 2018 in tutta l’Unione europea, si pone l’obiettivo di porre fine al Far West della gestione dei dati. Il termine comprende non solo informazioni anagrafiche e di contatto ma anche informazioni sanitarie, coordinate geografiche, informazioni storiche sulla nostra vita online, l’orientamento sessuale, le appartenenze politiche o religiose e molto altro.

Per quanto sia ancora difficile metterlo pienamente in atto, il regolamento Gdpr è la più avanzata legge in materia di tutela della privacy esistente. È anche la base su cui si poggia la richiesta di rimozione di articoli dal web. Il cuore è l’articolo 17: semplificando, afferma che quando i dati personali sono usati al di fuori dei confini stabiliti da chi li ha concessi, allora si può chiederne la rimozione. Tra le eccezioni, però, la prima riguarda il caso in cui un dato sia necessario per l’esercizio della libertà di espressione e di informazione. Quale diritto debba prevalere è spesso una decisione da prendere caso per caso. Qui però si apre il conflitto tra interpretazioni diverse di quali siano le implicazioni di deindicizzare o anonimizzare. La tendenza più recente, in Italia e in Europa, è spingere verso un’applicazione più ampia del diritto all’oblio. La riforma della Giustizia che porta il nome dell’ex ministra Marta Cartabia ha ulteriormente allargato l’ambito dell’oblio: dal primo gennaio 2023, chi è stato archiviato o assolto può chiedere la deindicizzazione dei propri dati personali.

La Corte europea dei diritti dell’uomo si è espressa due volte, nel 2021, sul limite tra libertà di espressione e diritto all’oblio. In entrambi i casi – uno riguardante il sito italiano (oggi chiuso) Prima da noi, l’altro riguardante l’archivio online del giornale belga Le Soir – ha stabilito che la deindicizzazione non è in contrasto con la libertà di espressione. In particolare, nella sentenza che riguarda Le Soir, ha affermato che la misura non ha modificato l’articolo in sé, in quanto l’originale cartaceo non era modificabile, «ma solamente la sua accessibilità sul sito del giornale». Il rischio però è stabilire per le notizie una “data di scadenza” e rendere sostanzialmente impraticabile la costruzione di archivi online con articoli di cronaca giudiziaria. Sul tema torneremo nell’ultima puntata della serie #StoryKillers.


Il progetto #StoryKillers

La disinformazione è un mostro a più teste: censura, autocensura, minaccia fisica, minaccia legale. La disinformazione distorce i fenomeni, cambia la percezione dell’opinione pubblica sugli eventi, radica falsi miti nell’immaginario collettivo. Tra le teste dell’idra, c’è anche la deindicizzazione o la rimozione degli articoli, come dimostra un database di 50 mila documenti ottenuto da Forbidden Stories.

L’organizzazione francese ha coordinato più di cento giornalisti di trenta testate internazionali. L’inchiesta si intitola #StoryKillers, un progetto collaborativo che nasce per indagare i mercenari della disinformazione, a partire dall’omicidio della giornalista indiana Gauri Lankesh, editor del giornale Lankesh Patrike, avvenuto nel 2017.


Come opera Eliminalia

Eliminalia dispone di diversi strumenti per spingere o distruggere i contenuti.

Richieste di rimozioni articoli alle testate

Il primo strumento è il form utilizzato da Raùl Soto con Osservatorio Diritti. Anche IrpiMedia ne ha ricevuti diversi e non solo da Eliminalia. Il database di documenti ottenuto da Forbidden Stories conta centinaia di richieste simili inviate indicando come indirizzo email di contatto legal-abuse.eu@pec.it o italy@abuse-report.eu. La maggior parte sono a nome di Soto. Le richieste seguono un modello pre-configurato: la struttura e i riferimenti legali si ripetono e hanno un tono intimidatorio – anche l’indirizzo email indicato allude in modo fraudolento a un ufficio della Commissione europea.

A una lettura più attenta, però, le motivazioni della richiesta di diritto all’oblio non sono mai ben dettagliate tranne che per l’aspetto temporale: la notizia sarebbe «vecchia e irrilevante». Spesso non si specifica se effettivamente i dettagli relativi alla persona coinvolta siano scorretti o se la situazione processuale sia cambiata, sembra che nessuno abbia davvero letto il pezzo in questione. In alcuni casi, le richieste fanno riferimento a un potenziale reato di diffamazione, mentre in altri casi si parla solo di violazione dei dati personali in riferimento alla possibilità di esercitare il diritto all’oblio. Le richieste non sono accompagnate nemmeno dall’atto del cliente con il quale conferisce potere a Eliminalia di agire a suo nome, come è stato fatto notare dal Tribunale di Civitavecchia in una risposta inviata dopo aver ricevuto la richiesta da Raùl Soto.

Richieste di rimozione articoli a Google

Negli Stati Uniti la legge sul copyright si chiama Digital Millennium Copyright Act (Dmca). Dà la possibilità agli utenti di chiedere alle aziende con sede negli Usa che offrono servizi online, vedi Google, di rimuovere i link di contenuti copiati. Nel caso di Eliminalia, centinaia di richieste per rimuovere articoli in italiano sono state depositate spacciandosi per impiegati di gruppi editoriali, da Repubblica a Il Giornale, da La Stampa a Il Sole 24 Ore. Spesso Eliminalia copia e retrodata il contenuto che vuole sia rimosso.

Lo scopo è fare da esca con centinaia di blog e siti creati appositamente: attraverso l’articolo retrodatato chiedono la rimozione dell’originale. Se Google ci casca, l’obiettivo è raggiunto. Nel database di #StoryKillers risultano oltre duemila richieste di rimozione Dmca fatte da Eliminalia. Il proprietario della società di reputazione, Didac Sanchez, secondo diversi professionisti che abbiamo sentito, si è presentato come “l’inventore” dell’impiego delle false richieste per la violazione del copyright. Google, nelle risposte ai reporter di #StoryKillers, sostiene di opporsi attivamente alle richieste finte e afferma di accogliere principalmente quelle di giornalisti con un pregresso di domande già accolte. Ciò non toglie che Google, per il Dmca, possa ritenersi estraneo alla violazione solo se interviene dopo poco (l’azienda dichiara in media sei ore) che è al corrente di un contenuto copiato. Il fattore tempo, in casi “in bilico”, può quindi spingere per la rimozione. Rimettere online un contenuto rimosso è un procedimento molto difficile. Google riceve anche richieste di rimozione per violazione del Gdpr.

Secondo i dati della società, nel corso del 2022 sono state depositate 1,4 milioni di richieste per 5,3 milioni di link. Sono numeri doppi rispetto a quelli registrati nel 2017, e per i quali è impossibile stabilire gli effetti. L’aumento delle richieste è esponenziale, quello delle rimozioni ha una curva meno accentuata.

Costruzione e diffusione di fake news

Quando Eliminalia non riesce a far rimuovere i link allora cerca di farli scomparire “sotterrandoli” sotto una mole di articoli falsi che, sfruttando tecniche di posizionamento sui motori di ricerca, riescono a scalzare gli articoli legittimi spingendoli nel dimenticatoio della seconda o terza pagina di Google.

Qurium ha individuato oltre tremila articoli falsi, raccolti su 600 siti web, collegati ai nomi di 48 clienti di Eliminalia. Gli articoli includono il nome del cliente nell’url del link e riportano spesso il suo nome nel testo del pezzo. Il contenuto è totalmente inventato.

Tutti questi siti web presentano degli elementi in comune, come la stessa informativa privacy e pagina sui diritti d’autore, e tutti erano registrati in un primo momento a nome dell’azienda Communication Media Group Ltd, con sede in un business center del paradiso fiscale caraibico di Saint Kitts & Nevis. IrpiMedia ha verificato la presenza nel leak di screenshot che mostrano la tecnica in azione: in rosso sono indicati articoli negativi, in verde invece quelli positivi pubblicati su siti web sotto il controllo di Eliminalia che avanzano nei risultati di ricerca.

Backlinking

Tra le tecniche usate da Eliminalia per far scalare la classifica dei risultati ai propri articoli fasulli, c’è quella di condividere i link su forum e blog. Infatti, tra i fattori che Google tiene in considerazione per decidere la posizione di un link tra i risultati di ricerca c’è il backlink, ovvero quante volte quel link sia stato incluso in altri siti web. Un’inchiesta esclusiva finirà in alto tra i risultati anche perché tutte le altre testate includono il link all’inchiesta nei propri articoli. Per manipolare i risultati di ricerca si possono quindi creare backlink verso siti web fasulli. Qurium ha individuato un forum su cui Eliminalia ha postato migliaia di backlink per permettere di far scalare i risultati della ricerca ai propri articoli falsi. In questo modo le notizie rilevanti sarebbero sommerse dai risultati scelti da Eliminalia.

image_pdfVersione PDFimage_printStampa