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Alla fine l’Europa ce l’ha fatta. Dopo bocciature, ripensamenti e rinvii vari, l’Unione Europea ha finalmente adottato una legge storica che rivoluzionerà la sostenibilità delle filiere produttive. Il Parlamento europeo ha approvato la Corporate sustainability due diligence directive (Csddd), ovvero un pacchetto di regole che obbliga le aziende a controllare, gestire e minimizzare il loro impatto negativo sull’ambiente e sui diritti umani. La direttiva è stata accolta dal Consiglio dell’Unione Europea il 24 maggio, a un passo dalla fine del suo mandato, e sebbene il testo finale sia a dir poco “annacquato”, queste norme sono un passo decisivo verso un futuro più sostenibile. Prima di questa legge, infatti, solo le aziende più responsabili monitoravano i rischi e gli impatti della loro catena di approvvigionamento. Ora, tutti gli operatori del mercato, a cominciare dai più grandi, dovranno controllare, gestire e minimizzare il loro impatto negativo sull’ambiente e sui diritti umani. Neanche a dirlo, tra i settori più interessati dalla direttiva c’è quello della moda: ne abbiamo parlato con Francesca Rulli, ceo di Process Factory e ideatrice di 4sustainability, il metodo che attesta le performance di sostenibilità della filiera di un’azienda di moda.

Perla moda, cosa cambia ora?
Questa legge introduce chiaramente la responsabilità per le imprese di monitorare i rischi e gli impatti sociali e ambientali delle loro filiere di produzione. Il fashion & luxury è tra i settori interessati e sono coinvolte tutte le aziende che si avvalgono in maniera più o meno rilevante di filiere di produzione. La direttiva chiede di mapparle, valutare i loro rischi ambientali e sociali, costruire un sistema di monitoraggio efficace integrandolo nelle policy e procedure dell’organizzazione e costruire un sistema di reportistica per la trasparenza e la definizione delle azioni di miglioramento. Prima solo le aziende più orientate alla sostenibilità e con progetti volontari ambiziosi misuravano i rischi e gli impatti dei loro fornitori: ora, invece, dovranno provvedere al monitoraggio tutti gli operatori del mercato, a cominciare da quelli più grandi.

Cosa significa, nella pratica, “vigilare sul rispetto dell’ambiente e dei diritti umani nella filiera”?
La norma impegna le imprese interessate a identificare e, se necessario, a prevenire e porre fine o mitigare gli impatti negativi delle proprie attività su diritti umani e ambiente. Questo coinvolge anche i partner lungo tutta la catena del valore e quindi fornitori, vendita, distribuzione, trasporto, stoccaggio e gestione dei rifiuti… Le imprese devono rendere disponibili le informazioni relative alla loro politica di Due Diligence sull’European Single Access Point (ESAP), in modo che possano accedervi con facilità anche gli investitori. Parliamo di una vigilanza con doppio scopo: trasparenza verso gli investitori – volta come il Reporting di Sostenibilità a proteggere il patrimonio aziendale, sempre più collegato a logiche ESG – e trasparenza verso gli altri stakeholder, mirata alla riduzione degli impatti ambientali e sociali generati dalle filiere produttive.

Può fare un esempio di controlli che potranno essere fatti o di possibili infrazioni?
Poniamo il caso di un brand che raccoglie dati dai suoi fornitori relativi alle procedure di sicurezza, all’utilizzo della chimica e dell’acqua, ecc. Ce ne sono alcuni che lo fanno da anni, anche anticipando le indicazioni normative. È un processo che si svolge in più fasi e va dalla mappatura dei fornitori alla verifica dei dati raccolti. A livello di controlli e sanzioni, è prevista una supervisione amministrativa e un meccanismo di responsabilità civile. Ogni Stato membro dell’Unione Europea dovrà istituire un’autorità di vigilanza incaricata di verificare la conformità delle imprese agli obblighi previsti dalla Direttiva: queste saranno autorizzate ad avviare ispezioni e indagini e ad applicare sanzioni alle imprese inadempienti fino al 5% del loro fatturato netto mondiale. Le persone che subiscono un danno a causa di una violazione dei diritti umani o degli standard ambientali avranno la possibilità di intentare azioni legali entro cinque anni dalla violazione e, se necessario, di ottenere un risarcimento. Stessa cosa per i sindacati e le organizzazioni della società civile.

La legge si applica anche alle aziende che hanno sede al di fuori dell’Unione europea, tra cui le “famigerate” Shein e Temu?
Sì, si applica anche alle aziende che hanno sede al di fuori dell’Unione Europea, se registrano nell’UE un fatturato netto superiore a 450 milioni di euro nell’esercizio finanziario, indipendentemente dal numero di dipendenti. Rientrano nell’ambito di applicazione anche le aziende o le società madri di gruppi che hanno stipulato accordi di franchising o di licenza all’interno dell’Ue e, quindi, anche i giganti del commercio elettronico. Le aziende extra Ue che operano nel mercato europeo saranno soggette al monitoraggio da parte delle autorità competenti degli Stati membri in cui generano fatturato: questo significa che le autorità nazionali avranno il compito di garantire che le normative siano rispettate anche da queste entità. A livello di tempistiche per l’applicazione degli obblighi, le prime a doversi attrezzare (a partire dal 2027) saranno le imprese europee con più di 5.000 dipendenti e un fatturato superiore a 1.500 milioni di euro. Seguiranno le imprese con oltre 3.000 dipendenti e un fatturato superiore a 900 milioni di euro (a partire dal 2028) e a chiudere tutte le altre, a partire dal 2029. Insomma, i primi ad essere chiamati in causa saranno proprio i colossi dell’ultra fast fashion, che incarnano i modelli di produzione e consumo in assoluto più impattanti perché basati sul massimo profitto e zero responsabilità verso l’uomo e l’ambiente.

Le aziende del fast fashion sono pronte a questa nuova normativa?
Distinguerei tra fast fashion e ultra fast fashion. Alcuni brand del fast fashion si stanno muovendo per implementare politiche di sostenibilità coerenti con la rivoluzione normativa in atto e in qualche caso hanno già iniziato ad effettuare due diligence sui diritti umani e sull’ambiente, a sviluppare piani di transizione climatica e a migliorare la trasparenza nelle loro catene di approvvigionamento. Il livello di preparazione e di incisività, evidentemente, è molto variabile. Discorso diverso per le aziende dell’ultra fast fashion come Shein e Temu: il loro modello di business è talmente lontano dai principi posti da risultare incompatibile.

Cosa rischiano se non rispettano questi requisiti?
I rischi di non conformità, per dirne una, sono altissimi e comportano conseguenze importanti. Le autorità competenti degli Stati membri dell’Ue, infatti, possono imporre multe significative, con sanzioni finanziarie proporzionali al fatturato dell’azienda e dunque particolarmente onerose per le grandi aziende. La direttiva prevede inoltre restrizioni operative, inclusi divieti o limitazioni nell’accesso al mercato europeo dove i colossi dell’ultra fast fashion realizzano una grossa parte del loro fatturato. Danni reputazionali a parte, infine, c’è da considerare il rischio di azioni legali da parte di gruppi di interesse, Ong e altri attori, che potrebbero esporre ulteriormente le aziende non conformi.

La Francia sta pensando di tassare il fast fashion: può essere utile o replicabile?
Il disegno di legge presentato dalla parlamentare Anne-Cécile Violando si compone di soli tre articoli, ma con un peso specifico notevole. Il secondo, in particolare, introduce la tassa basata sul principio di EPR, che estende la responsabilità del produttore all’intero ciclo di vita del prodotto, prendendo in considerazione anche gli impatti generati dalla sua produzione e dal suo smaltimento. Il sovrapprezzo su ogni capo, in buona sostanza, dipenderà dall’impatto ambientale del capo stesso, calcolato a partire da una stima delle emissioni di CO2: maggiore l’impatto, maggiore la tassa. L’obiettivo è palese, anche perché si inserisce in un contesto coerente di iniziative tese da una parte a proteggere l’ambiente dagli effetti tristemente noti dell’over production, dall’altra a tutelare il settore tessile e della moda francese dalla pressione dei grandi gruppi stranieri. Rispetto alle iniziative di fonte europea, il disegno di legge francese ha il pregio di tassare chi produce senza tutele e vende poi i suoi prodotti a costi bassissimi in paesi dove c’è invece chi investe in percorsi seri di sostenibilità. Il solo aspetto a preoccuparmi è la decisione della Francia di muoversi da sola, invece che attendere la disciplina europea… Voglio credere però che si tratti solo di un modo per fare pressione velocizzando i processi decisionali e che tutti i paesi europei, alla fine, avranno norme fra loro armonizzate: per le imprese, altrimenti, che complessità enorme sarebbe doversi adeguare a norme diverse da Paese a Paese!

Un’altra novità in arrivo è il passaporto digitale di prodotto, che raccoglierà e comunicherà tutte queste informazioni: come funziona?
Sarà una vera e propria “carta d’identità” dei prodotti di moda e aiuterà i consumatori a conoscere dove e come è stato realizzato un prodotto. L’obiettivo è di abbattere i rischi di essere manipolati e dare meno opportunità ai brand di scadere – consapevolmente o meno – nel green e social washing. I campi-dati non sono stati ancora definiti con esattezza, ma la normativa contiene già alcune indicazioni importanti sul tipo di informazioni che i passaporti dovranno riportare. Da giugno 2027, i prodotti tessili e di abbigliamento commercializzati nel mercato Ue dovranno dimostrare infatti di essere durevoli, riparabili e riciclabili, privi di sostanze nocive e realizzati nel rispetto dei diritti sociali e dell’ambiente da filiere di produzione monitorate in termini di rischi ambientali e sociali. Ogni scheda si potrà scansionare con un QRCode o un chip RFID e conterrà un grande numero di informazioni sul capo o accessorio a cui è associato, informazioni che sarà responsabilità estesa del produttore assicurare.

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