Talent Show. Il riciclaggio curricolare tra HR e Irresponsabilità sociale d’impresa
Uso a abuso della pratica degli stage aziendali, in un articolo della Dott.sa Giorgia Grandoni per creatoridifuturo.it
Uso a abuso della pratica degli stage aziendali, in un articolo della Dott.sa Giorgia Grandoni per creatoridifuturo.it
“Neolaureato”: condizione a tratti angosciante, per i più, satura di insicurezze dovute all’inevitabile passaggio dal certo all’incerto, dal caldo conforto dello status di “studente” a quello di “disoccupato”. Momento di bilanci e di paure, e dalla forzata convivenza con la spiacevole sensazione di dubbio: “Sarò abbastanza fortunato? Troverò lavoro? Le aziende mi chiameranno?”
La situazione dei giovani all’ingresso del contesto lavorativo non pare affatto incoraggiante. Secondo i dati Istat 2019, il tasso degli under 25 senza un impiego è pari al 27,1%. Nel confronto internazionale rimaniamo purtroppo ben distanti da paesi come la Germania, stabile al 5% di disoccupazione giovanile, e siamo in fondo alla classifica Eurostat, nella quale a far peggio di noi ci son solo Spagna e Grecia.
Il problema della disoccupazione giovanile, o meglio degli inoccupati, sembra affondare le radici nell’insufficiente investimento in formazione e orientamento nelle scuole in Italia, nonché nell’esiguità dei fondi dedicati all’istruzione, motivo per il quale il nostro Paese quest’anno si è posizionato ultimo in Europa in questa classifica. Ma cosa accade invece a quei giovani laureati che invece un lavoro lo trovano?
Per la maggior parte di essi, la strada è solo una: lo stage. Più propriamente definito dalla legge come “tirocinio formativo”, questa formula assai precaria di avvio al mercato del lavoro consiste in un periodo di’inserimento all’interno di un contesto lavorativo con la finalità di consentire al tirocinante/stagista di acquisire un’esperienza pratica in un determinato settore produttivo. Il Ministero del lavoro, per incoraggiare l’assunzione dei giovani italiani, finanzia il programma Bonus Garanzia Giovani, che prevede una serie d’incentivi e agevolazioni per le aziende che assumono giovani tra i 16 ed i 29 anni. Lo stage – che così delineato appare come un’opportunità per i giovani di accedere al mondo del lavoro e di mettere in pratica quanto studiato durante gli anni di formazione – ha purtroppo un lato oscuro, che spinse il giornalista Beppe Severgnini a definire l’Italia, con una frase poi divenuta celebre, come “una Repubblica fondata sullo Stage”. Cosa accade?
Concentriamoci sulla nozione di “Human Resource”: il capitale umano, ovvero la consapevolezza che le vere risorse di un’azienda non siano (solo) le macchine, i fondi o gli stanziamenti di denaro, ma piuttosto le persone. Ne consegue che se l’organizzazione, azienda o impresa si prende cura del proprio capitale umano, lo rispetta e investe in esso, nel suo sviluppo e benessere, la crescita strategica e di profitto dell’organizzazione è assicurata. A conferma di questa teoria, vi sono numerosi studi e ricerche, oltre che storie d’eccellenza ante litteram come quella di Adriano Olivetti, che con la sua idea d’impresa rappresenta ancora oggi un caso d’eccellenza continua a fare scuola a tutto il mondo. Sulla base di questo ragionamento, può non apparire così spaventoso per il giovane neolaureato immergersi lungo il complesso iter di ricerca del lavoro.
Sfortunatamente per i giovani, l’entusiasmo iniziale viene sostituito presto da una disillusione profonda. I career day, eventi nei quali le aziende “si mettono in mostra”, ognuno nel proprio apposito stand, spesso e volentieri si rivela essere solo una vetrina utilealle imprese per farsi conoscere: una pura strategia di posizionamento, che non è volta affatto alla ricerca dei cosiddetti migliori talenti, e stesse aziende che si autoproclamano come attente, sostenibili e orientate al futuro, non riescono nemmeno a ipotizzare un onesto e concreto piano di crescita per la forza lavoro in entrata. E i colloqui?
Non tutte le ciambelle riescono col buco, dice l’adagio popolare, così come non tutti i colloqui possono avere esito positivo. Certo, i rifiuti fanno parte della crescita e possono essere utili come feedback per il futuro, per comprendere cosa si può migliorare nel modo di presentarsi, e per affinare le tecniche migliori per mostrare il proprio potenziale al recruiter. Ma per far sì che ciò avvenga, sarebbe opportuno essere notificati del rifiuto in modo circostanziato, attraverso un feedback dall’azienda. Scontato direte voi: purtroppo non pare esserlo per le aziende. E non parliamo solo di piccole realtà, magari impreparate a gestire le procedure di assunzione del personale, ma anche dei veri e propri colossi del business.
Ad esempio, aziende come BNL gruppo Paribas – peraltro, almeno formalmente, blasonatissima nel campo della responsabilità sociale d’impresa – dopo un colloquio con esito negativo ben si guarda dal garantire alcun tipo di feedback, nemmeno il semplice invio di una mail “precompilata” alla potenziale risorsa per informarla di quanto deciso. Nella maggior parte dei casi, le imprese discutono di talento, di significato, di employer branding, e poi nemmeno si prendono la briga di congedare un candidato ringraziandolo per l’interesse ed il tempo speso nei confronti dell’azienda stessa.
Episodi del genere non si contano. Nel mese di dicembre scorso, la Enginereeng – azienda quotata in borsa nell’ambito settore del software e servizi IT, specializzata nella digital transformation in particolare per i settori finanza, pubblica amministrazione, utilities e industria – era alla ricerca di una risorsa per una posizione di stage in HR. L’impresa ha iniziato il suo processo di selezione del personale, contattando potenziali talenti selezionati attraverso uno screening nel frequentatissimo portale di ricerca Almalaurea. Sfortunatamente per il ragazzo contattato, l’entusiasmo iniziale di aver ricevuto la telefonata da parte della nota azienda è spento rapidamente a seguito di una brevissima chiacchierata in cui il recruiter, che dopo aver spiegato che stavano contattando i neolaureati con i profili migliori da varie università per procedere con un processo di selezione (piuttosto lungo), dichiarava senza troppe cerimonie che sarebbe comunque stato impossibile per la risorsa essere inserita in azienda dopo i canonici 6 mesi di contratto, “per questioni di budget”. Eccovi un esempio lampante e concreto del sopracitato lato oscuro dello stage, che prende il nome di “Stage Rolling”: l’utilizzo di stagisti neo-laureati ne più ne meno come manodopera a basso costo.
È un tipo di stage che non è mai volto alla definitiva assunzione, ma che si rinnova invariabilmente ogni sei mesi. Consiste in un vero e proprio riciclaggio di stagisti, persone fresche di studi, dai brillanti CV e con un alto livello di competenze in entrata, che finito il contratto di stage vengono mandati via per passare “ai prossimi”, permettendo così alle aziende di risparmiare notevolmente sui costi della forza lavoro (uno stagista dopo 5 anni di università viene pagato in media tra i 500 e gli 800 euro mensili, contro i circa 1.300 di contratto a tempo determinato standard), ma perdendo contemporaneamente moltissimo sul versante di crescita del capitale umano, sulla motivazione della forza lavoro e – tra l’altro – spendendo notevolmente in termini di energia e tempo per formare di volta in volta le nuove leve, in una specie di poco produttiva e illogica coazione a ripetere. Per lo stagista, i possibili “vantaggi” sono esclusivamente quelli di guadagnare un’esperienza da inserire sul CV, consapevole di dover cercare un’altra sistemazione al più presto.
Le aziende che praticano (abusandone) questa modalità di stage sono molte nel contesto italiano, basta una velocissima ricerca sul portale Google per scoprirlo, evidenza che di certo, tra l’altro, non contribuisce al rafforzamento della reputazione d’impresa. A conferma di quanto appena esposto, i dati della ricerca Excelsior che conferma che solo uno stagista su 10 viene poi assunto in azienda: in media, su 1.000 giovani che cominciano uno stage, solo 106 vengono assunti (con qualsiasi tipo di contratto), e 894 verranno invece lasciati a casa senza ricevere una proposta di lavoro ne, spesso, una qualunque giustificazione, se non, nella migliore delle ipotesi, meramente formale.
Per combattere questo trend tutt’altro che virtuoso da parte delle imprese, sono nate intriganti realtà come “La Repubblica degli stagisti”, una vera e propria testata giornalistica online, nata nel 2009, che si occupa di approfondire la tematica dello stage in Italia, dando una voce alla categoria dei giovani stagisti, oltre che – per onesta intellettuale – segnalare le aziende che si distinguono positivamente, redigendo ogni anno una classifica delle più oneste dal punto di vista dei pagamenti, della trasparenza e del tasso di assunzione a fine stage.
Le questioni della disoccupazione e del precariato giovanile in Italia sono assai dibattutte, e vengono raccontate prevalentemente attraverso i numeri dei tagli al personale e delle ore di straordinari non pagate, o della flessione degli stipendi. Ma quali sono le conseguenze di questa infausta realtà sui giovani italiani? Un mix di stress, insicurezza e solitudine, rappresentanti ormai il fulcro di un mercato del lavoro sempre più incerto e competitivo. Ad approfondire questo tema è anche l’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna, che ha denunciato l’asprezza dell’attuale sistema di recruitment, alienante per i giovani, in cui l’ansia per il futuro può facilmente tradursi in “inadeguatezza, depressione, stati d’ansia o panico accompagnati da una sintomatologia psicosomatica”. Le parole di Anna Ancona, Presidente dell’Ordine, definiscono in modo chiaro l’attuale situazione: «Una condizione di precariato lavorativo non rende instabile solo la situazione economica, ma mina anche lo stato psicologico delle persone. Perché non possono emanciparsi dalla famiglia di origine e costruire una propria realtà, ma si ritrovano a vivere forzatamente in una sorta di “adolescenza sospesa”. I giovani si trovano a volte in condizioni comparabili all’indigenza, con conseguente frustrazione e perdita dell’identità sociale; quasi sempre, quando hanno un lavoro, sono comunque sottopagati». L’impatto negativo dell’attuale panorama non tocca solo la società e il benessere materiale dei cittadini, ma anche la salute mentale dei giovani italiani.
Consapevoli di ciò, le aziende – che abilmente riempiono la descrizione delle loro vision e mission aziendali con parole come purpose, talent o sostenibilità – non paiono assumersi la loro fetta di responsabilità per questo spiacevole stato di cose.
Il termine responsabilità racchiude in sé l’impegno dell’impresa a rispondere pubblicamente di tutti i propri comportamenti e risultati sul piano etico e sociale. Oggi, operare in modo genuino su temi come quello della sostenibilità vuol dire essere virtuosi non solo su temi come la salvaguardia ambientale, argomento tanto vitale quando facile nella sua capacità di attrarre consenso sul brand, ma anche di inserire preoccupazioni di carattere etico su temi di estrema attualità come quello del precariato giovanile. Il libro verde della Commissione Europea definisce la Corporate Social Responsibility come “l’integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. Allo stato attuale, poche imprese sembrano comprendere pienamente il significato di questo termine, distinguendosi invece per quella che pare piuttosto essere un’ “irresponsabilità sociale d’impresa”.
Storie come quella di Olivetti ci hanno insegnato che un ascolto sincero nei confronti del proprio “capitale umano” – a tutti i livelli, dal neoassunto stagista al dirigente – oltre che generare benessere e conseguentemente aumento di produttività per l’azienda ed engagement da parte di tutti gli stakeholder, gioverà all’intera comunità, innescando una reazione a catena virtuosa e profittevole.
Al contrario, la mancata attenzione nei confronti dei giovani evidenzierà una distonia tra l’immagine e l’identità d’impresa, con il conseguente – e inevitabile – danno alla reputazione e pregiudizio alla credibilità, non solo agli occhi dei futuri talenti, ma dell’intero pubblico dell’organizzazione.
Oggi le aziende hanno una possibilità che non dovrebbero lasciarsi sfuggire: grazie all’ascolto e al dialogo costruttivo con le giovani generazioni hanno lo straordinaria opportunità, in prospettiva, di poter di costruire e migliorare, insieme, il futuro della società nella quale tutti viviamo.