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Ai confini con la Repubblica del Congo, affacciata sull’Oceano Atlantico, si trova la provincia di Cabinda, un’exclave dello Stato dell’Angola famosa per le sue foreste tropicali, la produzione di caffè, di cioccolato, di olio di palma e di petrolio. Nonostante sia la più piccola provincia dell’Angola, qui si produce il 60 per cento del petrolio del Paese che rappresenta il 50 per cento del Pil e l’89 per cento delle esportazioni nazionali. «Ma noi siamo poveri», commenta Lucas, giovane angolano che vive in Europa.

Le sue parole sono confermate dai dati del National Institute of Statistics  in collaborazione con l’Università di Oxford: il 54% degli angolani vive in povertà. Dal 1955, anno in cui è stato scoperto l’oro nero, a sfruttare i suoi giacimenti sono arrivate di corsa tutte le più grandi compagnie petrolifere del mondo. Cosa che non stupisce. A sorprenderci, invece, è l a segnalazione di una fonte che preferisce rimanere anonima ma che ci racconta una storia mai scritta, e che il Corriere ha verificato nei dettagli.

Il 3 maggio, la società petrolifera americana Chevron, tra le più grandi del mondo che in Angola lavora per mezzo della controllata Cabgoc (Cabinda Gulf Oil Company), ha firmato con il governo una moratoria per poter scaricare nell’oceano tonnellate di rifiuti petroliferi pericolosi. Un accordo che è rimasto nell’ombra.

L’intesa fa sì che il ministero angolano delle Risorse minerarie, del petrolio e del gas abbia dato il via libera a riversare nel mare quelli che in gergo si chiamano i «detriti di perforazione», scarti contaminati che «rappresentano una grave minaccia all’ambiente», ci spiega Alessandro Giannì di Greenpeace Italia.

Facciamo un passo indietro. Per arginare l’impatto ambientale dello sfruttamento del petrolio e proteggere l’ecosistema dallo scarico dei frammenti di perforazione delle piattaforme offshore, nel 2014, il governo angolano ha dato il via a una politica chiamata «zer o discharge», discarica zero. Nonostante questa nuova pratica ambientale, il ministero angolano, nel 2019, ha concesso a vari operatori il permesso di scaricare i loro frammenti di trivellazione contaminati solo in caso di attività esplorative in aree di sviluppo e in acque ultra profonde, o in caso di nuove concessioni. Un via libera che ha allargato le maglie della legge.

A maggio, invece — come mostra il documento che pubblichiamo — la Chevron ha ottenuto l’autorizzazione allo scarico in mare degli scarti contaminati (con un livello massimo di ritenzione di detriti di perforazione del 5%) fino al 2023. Sono autorizzati a scaricare questi rifiuti in fondali bassi a poca distanza dalla riva. Total ed Esso si sono già accodati alla richiesta. Né il ministero del gas dell’Angola, né Chevron hanno risposto alle nostre domande.

«Fa impressione il fatto che succeda in acque basse, dove l’effetto della tossicità è maggiore perché c’è una concentrazione più elevata di veleni», spiega un operatore occidentale sul posto. Ci racconta che queste compagnie petrolifere che operano in tutto il mondo, in Europa e negli Stati Uniti, rispettano le severe leggi dello smaltimento, contribuendo alla salvaguardia degli ecosistemi marini. Nei Paesi occidentali, i processi di smaltimento e pulizia dei fluidi e dei detriti provocati dalla perforazione del suolo marino vengono seguiti accuratamente: «È il famoso double standard che alcuni utilizzano quando operano nelle zone del mondo più povere».

Ma perché l’Angola dovrebbe accettare una richiesta di questo tipo? Perché il potere di certe multinazionali supera quello di governi più deboli e indeboliti dalla corruzione e dalle guerre civili, governi più ricattabili.

Il ministero, ricostruiscono sempre fonti occidentali, avrebbe detto che la richiesta di Chevron è arrivata quando il prezzo del petrolio era ai minimi storici e la deroga doveva essere un tentativo per tagliare i costi dello smaltimento dei detriti. Ma ora che a causa della guerra il prezzo del petrolio ha raggiunto i massimi storici? Difficilmente si tornerà indietro.

Una stima prudente è che in un anno verranno scaricate 12 mila tonnellate di detriti di perforazione e 6 milioni di litri di petrolio nell’oceano. Senza contare che la pulizia del suolo marino inquinato comporta una spesa di centinaia di milioni di dollari. «Quando abbandoni questi materiali nel mare, rilasci petrolio, metalli pesanti e fanghi che circolano nell’ambiente e che mettono a rischio la fauna marina. Finiscono nella rete alimentare e nei nostri piatti», dice Giannì. Una conseguenza molto grave in un Paese dove la pesca è tra le attività principali.

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