In una fase di crisi, o forse di transizione tra modelli economici, ci siamo chiesti quale sarà il ruolo della sostenibilità d’impresa (o Corporate Social Responsibility – CSR) nel cambiamento di contesto in atto. A poco più di un mese da Rio+20 abbiamo ipotizzato tre possibili scenari per lo sviluppo della CSR nel nostro Paese. Il primo: la gestione del valore reputazionale. L’impresa si configura sempre più come un’organizzazione aperta all’ecosistema in cui opera, quasi liquida, parafrasando Bauman. Il ruolo degli stakeholder, gli strumenti a loro disposizione e le istanze soggette ad attenzione sono in via di moltiplicazione. Oggi, la maggior parte della brand reputation si gioca su social media e passaparola. Il Reputation Institute Italia afferma, nello studio RepTrak Pulse 2012, che nella scelta finale d’acquisto da parte del consumatore il prodotto conta solo per il 40%: la quota rimanente è determinata dalla positiva percezione di fattori come l’etica d’impresa, la sostenibilità, la trasparenza, la capacità di raggiungere e mantenere risultati nel lungo termine. Diventa dunque fondamentale per le imprese investire in disclosure, ovvero in apertura agli stakeholder, mediante un percorso di miglioramento continuo neiprocessi di reporting di sostenibilità e mediante la diversificazione degli strumenti utilizzati. In tal senso, l’analisi della materialità, ovvero l’identificazione dei temi rilevanti al fine della comunicazione con i portatori d’interesse, diventa fondamentale. E’ un dovere dell’impresa in osmosi sul territorio ascoltare i propri stakeholder per restituire loro, mediante un sistema di reporting trasparente o mediante report tematici approfonditi, le performance relative ai temi chiave. Le imprese che oggi interpretano la sostenibilità come pura filantropia hanno l’opportunità di ripensare la CSR in un’ottica di risk management, collocando all’interno di tale quadro le azioni più efficaci per la prevenzione e il controllo del rischio, anche mediante audit interni strutturati secondo l’approccio dei più recenti orientamenti internazionali, come ad esempio la ISO 26000:2010 che fornisce una guida volontaria per implementare e promuovere un comportamento socialmente responsabile all’interno di qualsiasi tipo di organizzazione e nella sua sfera di influenza.
La CSR dunque non sta morendo, ma è più in forma che mai. Ecco il secondo scenario futuro: la pienaintegrazione delle pratiche di sostenibilità nel business. Detto, fatto. Nei primi mesi del 2011, Michael Porter formula la teoria del Valore Condiviso (Creating Shared Value – CSV), esprimendo un pensiero non del tutto innovativo, ma finalmente sistematico. Le aziende debbono attivarsi per riconciliare business e società: creare valore economico in modalità tali da generare contemporaneamente valore per la società, rispondendo a un tempo alle necessità stesse dell’azienda e alle esigenze di tipo sociale. Un nuovo punto di vista che concerne la valorizzazione del know how dell’impresa e la riconfigurazione delle relazioni lungo la catena del valore. CSV come futuro della CSR? In linea teorica, probabilmente sì, anche se ad oggi le imprese che hanno sottoscritto tale approccio sono ancora poche. In Italia, tra i pionieri figura Snam che, con l’aiuto di Avanzi. Sostenibilità per Azioni, ha recentemente pubblicato, in allegato al Bilancio di Sostenibilità 2011, il documento «Verso il Valore Condiviso», nel quale viene rappresentato un nuovo approccio alla sostenibilità incentrato sulla valorizzazione del legame tra impresa e territorio. Creare valore condiviso significa agire sui processi core per massimizzare le esternalità positive. E quelle negative? Come anticipato, un sistema strutturato di gestione del rischio reputazionale permette di minimizzare, gestire e compensare le esternalità negative inevitabili per un’azienda su un territorio. Eccola la CSR 2.0.: creare valore per il territorio e per l’impresa, minimizzando gli impatti. Integrare la CSR nel business significa quindi implementare una strategia d’impresa che ricomprenda temi di sostenibilità sin dalla predisposizione dei piani industriali/piani di sviluppo delle imprese, affinchè la responsabilità sociale non diventi un accessorio importante, ma un fondamentale della strategia. Non a caso, anche le ultime tendenze della rendicontazione si muovono in questa direzione grazie al lavoro dell’International Integrated Reporting Council – IIRC che a breve emanerà la prima bozza delle linee guida internazionale per il reporting integrato. Tale processo, per essere efficace, può essere affiancato da un nuovo impegno nel ripensamento della cultura d’impresa per la sostenibilità, poiché, come afferma il Premio Nobel Michael Spence valori e istruzione sono i requisiti chiave del nuovo modello di sviluppo.
Ancora in questo ambito, sarà possibile identificare opportunità provenienti non solo dall’integrazione della CSR nell’impresa, ma anche dall’integrazione della CSR tra le imprese. Favorire una CSR territoriale, di polo o di distretto, ottimizzando economie di scala, aiuterà le aziende, e in particolare le PMI ubicate in un preciso ambito territoriale accomunate da una peculiare vocazione produttiva o collocate lungo una specifica catena di fornitura, a rafforzare le proprie pratiche di sostenibilità, in ordine alle richieste del mercato, sfruttando le opportunità concesse dalla sinergia e da un approccio reticolare.
Infine, il terzo scenario: la CSR diventerà una forza di trasformazione in grado di portare una nuova visione non solo dell’economia, ma della società nel suo complesso. Scenario ambizioso, rappresentabile in estrema sintesi secondo una piccola magia ortografica. Da CSR a CSI. Ovvero, dalla corporate social responsibility alla corporate social innovation. L’impresa come attore, promotore e volano di innovazione sociale. Grandi aziende profit e istituzioni pubbliche possono trasformarsi in moltiplicatori di sviluppo di nuove progettualità (che a loro volta possono massimizzare il valore generato trasformandosi in nuove imprese) che rispondano a una domanda di sostenibilità, facendo leva su asset tangibili e intangibili in fase di riorganizzazione e ottimizzazione, o mediante percorsi di open innovation. L’impresa metta a disposizione expertise ed asset aziendali sottoutilizzati per dare vita a start up ad alto valore ambientale e sociale, innovative nei prodotti, nei processi e nella forma (dall’impresa sociale, alle Benefit Corporations, passando per sistemi low profit). L’azienda sostenibile dovrà essere in grado di reinterpretare il proprio ruolo attraverso prodotti, servizi, e spin off innovativi che operino in una delle fasi della catena del valore o realizzino attività sinergiche con le proprie, ponendosi al contempo come acceleratore della competitività del sistema economico, facilitatore dell’impatto occupazionale, promotore del miglioramento delle condizioni ambientali e della coesione sociale del territorio. Questi spin off sarebbero in grado di analizzare la domanda di bisogni emergenti e organizzarsi per fornire loro risposte efficaci e innovative, facendo quello che le imprese strutturate talvolta faticano a fare attraverso il core business, perché irrigidite da processi interni stringenti o perché preoccupate dalle performance economiche di breve periodo. Un cambio di prospettiva: l’obiettivo principale dell’azione economica è la creazione di valore sociale condiviso, per generare un impatto positivo sull’ambiente e sulla società in cui viviamo. L’equilibrio economico-finanziario è uno strumento. Una provocazione che annuncia quale potrà essere il figlio migliore di questa crisi: un nuovo modo di fare impresa, un nuovo modo di concepire il business. Slow profit.