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Non un solo specialista in comunicazione d’impresa o marketer metterebbe oggi in dubbio che la reputazione è l’asset più importante per un’azienda, complici anche le, ormai frequentissime, crisi reputazionali che, una settimana sì e l’altra anche, generano distruzione di valore per gli azionisti. Parole come identità, coerenza, autenticità, sono tornate di moda, e hanno acquistato nuovi significati: è infatti da tempo dimostrato che le aziende che producono i maggiori utili sono quelle che inseriscono preoccupazioni di carattere etico nel proprio business a livello strategico, e che le organizzazioni con questa sensibilità sono le più resilienti e quindi le più interessanti per gli investitori.
A parole, quindi, tutti sono d’accordo: gli interventi ai congressi si sprecano, come anche gli articoli agiografia sulle eccezionali performance ESG di questa o quell’altra azienda, in qualunque comparto, di produzione industriale, finanziaria o di servizi.

L’apparire continua a essere più rilevante dell’essere

La verità, invece, dobbiamo esser schietti, è che l’apparire continua a essere più rilevante dell’essere: i manager e gli imprenditori continuano, nel concreto, a mirare a un vantaggio competitivo nel breve periodo, e la nostra è l’epoca dei “false ESG”, che si moltiplicano del tutto fuori controllo. Il modello “Enviromental, Social and corporate Governance”, tanto di moda negli ultimi anni – seppure messo in parte in crisi dalla raccapricciante svolta Trumpiana – restano al centro di crescenti speculazioni da parte di una vasta platea di professionisti che vendono a caro prezzo consulenze per poter ottenere le ambite certificazioni, delle quali aziende medie e grandi, in preda a una specie di bulimia compilativa tipica del framework americano, paiono non poter fare a meno.

Come ho scritto nella prefazione a un fascicolo di recente pubblicazione a cura della Scuola Etica Leonardo, opinione diffusa vuole che le società con le posizioni migliori in classifica sulla base di metriche ESG, otterranno – già solo per questo – migliori rendimenti per gli azionisti: questa convinzione è errata, per tutta una serie di ben documentati motivi.

Gli indici ESG, per come sono oggi intesi, sono centrati su uno sguardo del tutto generale, avulso dal particolare, che può generare effetti imprevisti e preoccupanti: si tratta di una vera e propria mania classificatoria, l’ennesima, tipica del mondo anglosassone. Ad esempio, l’impatto ambientale di una banca non è necessariamente rilevante per la sua performance economica: una corretta politica di contenimento delle emissioni nocive in atmosfera otterrebbe un punteggio alto sugli indici ESG, ma non influenzerebbe significativamente le emissioni di carbonio globali; al contrario, l’emissione da parte della banca di prestiti subprime che i clienti non saranno in grado di ripagare o la commercializzazione di titoli tossici, potrebbe(ro) avere devastanti conseguenze sociali e finanziarie, come le cronache di pochi anni fa hanno dimostrato. Nonostante ciò, il reporting ESG ha dato credito alle banche per la prima questione e, allo stesso tempo, ha tralasciato colpevolmente – o dolosamente? – la seconda.

L’adozione diffusa del reporting ESG ha indirettamente “tranquillizzato” gli investitori e i cittadini, ma, al contempo, ha distratto le aziende dall’attrezzarsi per causare un impatto sociale rilevante riguardo alle questioni centrali per i propri business: come se, assolti gli obblighi ESG, si potesse tirare un respiro di sollievo, con la certezza di aver fatto bene “i compiti a casa”.

Fare meno, ma fare meglio

Sono le politiche aziendali di alta sostenibilità che devono riflettere la cultura di fondo dell’organizzazione, e non deve essere la cultura dell’organizzazione a dover essere “piegata” al servizio dell’immagine per far apparire l’organizzazione più green e quindi più appetibile agli occhi di Clienti e investitori; così facendo, le aziende tradiscono i fondamentali del reputation management, la fiducia dei cittadini e bruciano valore, come veri e propri Giani Bifronte che – tristemente — fanno della comunicazione effimera condita da scarsa autenticità una delle peculiarità del proprio posizionamento.

Fare meno, ma fare meglio, è un paradigma che nel nostro mondo, quello della costruzione e difesa della reputazione, è considerato scontato da anni, ma evidentemente, e inspiegabilmente, ancora non lo è nella pratica d’impresa. La verità è che – al netto dell’agiografia pubblicitaria – solo una esigua minoranza di aziende dimostra di aver davvero a cuore il valore dei propri azionisti, e ogni giorno opera con la convinzione di poter fare bene, e di poter cambiare in meglio qualcosa nell’ecosistema sociale nel quale opera, consapevoli che questo cambiamento non si può improvvisare, e richiede tempo, fatica, risorse, non riducendosi a un certificato da appendere dietro alla scrivania, frutto magari dell’auto-compilazione di questionari o di analisi non sollecitate svolte dall’esterno da auditor compiacenti e benevoli.

Non c’è più tempo da perdere

L’economista italiano Antonio Genovesi (1713-1769), in pieno Illuminismo, “predicava” inascoltato sul tema dell’importanza della costruzione di una “economia civile”, ovvero finalizzata alla responsabile felicità delle persone, sostenibile in quanto capace di coniugare crescita economica ed equità sociale, all’insegna di parole chiave come reciprocità, fiducia e mutuo vantaggio.

Oggi, tre secoli dopo, le imprese sono chiamate a nuove responsabilità: non c’è più tempo da perdere, e non si può continuare a ingannare ancora a lungo il mercato. L’ora della coerenza, dell’autenticità, della responsabilità, è qui, ora.

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