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«NELLE FILIPPINE, IN INDONESIA E IN MADAGASCAR IL 60 PER CENTO DELLE “FATTORIE MARINE” È MANDATA AVANTI DA DONNE»

Ha nel cassetto una laurea in Relazioni internazionali e una breve carriera da fotomodella, ma il suo passato e il suo presente sono immersi nell’elemento di famiglia: l’oceano. Quell’acqua in cui ha navigato in lungo in largo il nonno, il campione del “continente blu”, e anche il padre Philippe, morto a soli 38 anni in un incidente aereo. Una passione scritta nel DNA che l’ha portata a creare l’iniziativa “Oceans 2050”. Ad Alexandra proteggere gli oceani non basta più. Vuole rigenerarli. La parola “conservazione” per lei è passata di moda. La sua missione è ripristinare l’abbondanza dell’oceano entro il 2050. «La scienza dice che è possibile. Quando è nata mia figlia, nove anni fa, ho realizzato che nel corso della mia vita ero stata testimone del peggior declino degli oceani in tutta la storia dell’umanità. Molti dei luoghi che avevo conosciuto da bambina assieme a mio nonno sono scomparsi. Mi sono chiesta “non sarebbe straordinario se invece di scrivere il necrologio degli oceani mia figlia potesse vederli rinascere, tornare a com’erano ai tempi del suo bisnonno?”».

Negli Anni 60, il 90% degli oceani era integro

Lo spagnolo Carlos Duarte, biologo marino di fama internazionale, aveva appena pubblicato un paper scientifico sulla rigenerazione degli oceani. «È stato di grande ispirazione. Gran parte della scienza oggi si focalizza sul conteggio delle perdite, pochi studiano come creare un mondo migliore. Mio padre parlava di conservazione alla fine degli Anni 60, quando il 90% dei nostri oceani era integro. Ora che il 50% della biodiversità oceanica è perduta, la conservazione è una parola anacronistica. Dobbiamo cambiare paradigma, la ricerca di Duarte delinea una “road map” per riuscirci». A partire dall’agricoltura rigenerativa oceanica e dalla coltivazione di kelp, un’alga bruna che cresce sulle sponde degli oceani, nota anche come laminaria.

La strategia dei «serbatoi» sottomarini

Come gli alberi, le grandi alghe dell’oceano sono ottimi serbatoi di CO2, che assorbono dall’acqua e immagazzinano nelle foglie. «Circa il 40 per cento delle emissioni accumulate dalla rivoluzione industriale è finito negli oceani », assicura Alexandra. Non sono, ovviamente, le stesse alghe che hanno infestato in passato l’Adriatico, «quelle erano provocate dall’inquinamento», ma alghe “buone”, che offrono diversi vantaggi per gli eco-sistemi e per chi le coltiva. Le foreste di alghe riducono l’acidificazione degli oceani, ossigenano le acque, creano habitat per la biodiversità, sono un rimedio contro l’inquinamento perché si nutrono anche di fertilizzanti, eliminandoli dall’acqua. E le macro-alghe possono diventare un’alternativa industriale interessante alla plastica e al carburante, o possono essere utilizzate come additivo per l’alimentazione delle mucche, riducendo le loro emissioni di metano. In generale le foreste acquatiche – oltre alle alghe, ci sono anche quelle di mangrovie, di poseidonia, ecc. – sono un ottimo cuscinetto per le coste marine, perché assorbono gli impatti delle onde e delle maree, proteggendo case e comunità.

Mettere in rete i 23 mila coltivatori di alghe

«Ci sono però un sacco di altre applicazioni possibili» dice Cousteau «con impatti sociali importanti. Soprattutto sulle donne. Nelle Filippine, in Madagascar, in Indonesia, il 60 per cento dei coltivatori di macro-alghe sono donne». Il progetto “Oceans 2050” sta aiutando 23.000 coltivatori di alghe sparsi nel mondo ad entrare nel mercato mondiale del carbonio – in cui si possono vendere o acquistare quote di emissioni – studiando per ora il lavoro di 24 “fattorie marine” nei cinque continenti, dagli indigeni in Alaska a centinaia di “farmers” giapponesi. «Come gli alberi, le macroalghe perdono le foglie, che diventano sedimento sotto le foreste marine. Stiamo verificando come inserire questo sequestro permanente di CO2 nel “carbon market”, esattamente come chi oggi pianta alberi o cresce foreste sulla terraferma ottiene crediti economici. È un meccanismo per sostenere i coltivatori e compensarli non soltanto per i loro prodotti ma anche per gli eco-servizi che offrono. E presto ci sarà anche un mercato per la biodiversità », sostiene Alexandra.

«Felice di aver visto il mondo con nonno Jaques»

Chissà se nonno Cousteau sarebbe orgoglioso di quella nipotina bionda, tanto quanto lei lo è sempre stata di lui: «Sono fiera di essere sua nipote, felice di aver partecipato alle sue spedizioni e di aver visto il mondo attraverso i suoi occhi. Si muoveva sicuro in politica, economia, scienza, ingegneria, tecnologia, musica.. Era un uomo del Rinascimento. Soprattutto, per me era come uno statista. Forse anche per questo decisi di studiare relazioni internazionali » ricorda Alexandra. «Lui mi ha forgiato. Aveva questo straordinario senso di meraviglia infantile per il mondo, era sempre curioso. Tutto ciò è stato una grandissima fonte di ispirazione. Anche perché lui è stato uno dei primi a vedere il disastro cui stavamo andando incontro e, nonostante questo, non ha mai perso quel suo spirito di stupore verso il Pianeta, quella gioia immensa quando navigava per gli oceani». Un modello ineluttabile. «Mi chiedono spesso se oggi mi occuperei di oceani se non fossi stata la nipote di Cousteau e non so mai cosa rispondere. Questa è la mia vita, da quando sono nata. La prima volta che ho parla to in pubblico di oceani avevo appena quindici anni. Da allora non ho mai smesso. E alla fine di ogni dibattito la gente mi chiede: “Come posso contribuire? Cosa posso fare?”. Io rispondo che devono tornare ad innamorarsi del mondo. Lo stesso amore che aveva mio nonno».

Non basta la tecnologia, l’umanità deve cambiare

«Oggi siamo troppo impegnati con la nostra vita quotidiana, con l’ufficio, le incombenze della casa, il traffico e la spesa. Ma se lasciamo fluire quel senso di meraviglia, lo stesso di quando eravamo bambini, nella quotidianità e riusciamo a trasmetterlo ai nostri figli, allora le azioni da intraprendere diventano ovvie». Saranno la tecnologia e l’innovazione a rendere possibile il cambio di paradigma necessario a fermare la corsa verso il disastro ambientale, ma sarà l’umanità a dover virare la direzione. Le nuove generazioni hanno la piena consapevolezza di ciò che sta accadendo, «quando vedi i giovani in strada, ispirati da Greta Thunberg, chiedere giustizia ambientale, è chiaro che è in corso un cambiamento importante. E la politica seguirà, dovrà farlo, come ha fatto con i matrimoni gay».

Troppa ansia, meglio conservare l’entusiasmo

Alla nipotina ormai cresciuta di Cousteau, forte degli insegnamenti di quel nonno ingombrante e amatissimo, non piacciono però i piagnistei. «La situazione in cui siamo, il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, la degenerazione dei nostri oceani, la chimica nell’acqua, l’inquinamento da plastiche hanno creato un clima di ansia, che non aiuta a migliorare le cose». Meglio conservare l’entusiasmo, quello che l’ha portata a nuotare con gli scienziati accanto agli squali-balena e ai delfini, o a catturare salamandre giganti nelle acque dei fiumi in Tennessee. L’ultima domanda d’obbligo è sul Mediterraneo, il mare sulle cui coste e acque Alexandra ha passato tanti estati, spesso al fianco del nonno, direttore del Museo Oceanografico del Principato di Monaco. «Ho tanti ricordi, andavamo spesso in Italia, a Ventimiglia, a mangiare la pizza… Ma quel mare è molto cambiato da allora. In Italia, come in Spagna, amano mangiare il pesce e amano il mare. Ma lo amano così tanto da condannarlo a morte».

LA CRITICA ALL’OVER FISHING: «NON MANGIO PIÙ PESCE, EPPURE MI PIACEVA: HO SMESSO QUANDO HO CAPITO CHE COSA STAVA ACCADENDO»

Il dito è puntato sull’overfishing, la pesca eccessiva. «Il 90 per cento della pesca nel mondo è fatta da 28 Paesi più l’Unione europea che agisce come un blocco unico nelle trattative internazionali » spiega Cousteau. «Per ricostruire il patrimonio ittico del Mediterraneo, e in generale del mondo, sono indispensabili tre politiche urgenti: quote di pesca basate su calcoli scientifici, riduzione del by-catch (lo scarto del pescato, ovvero tutti gli organismi catturati involontariamente), ampliamento delle aree marine protette. Nulla di tutto ciò sta avvenendo nel Mediterraneo. Ed è fondamentale maggiore trasparenza e tracciabilità, lungo tutta la filiera. Come già avviene per la carne». Guardare sempre l’etichetta, quando al bancone del pesce si compra un branzino o un pesce spada. Ad Alexandra non capita neppure: «Non mangio pesce. Non voglio. Mi piace, lo mangiavo. Quando però ho scoperto cosa sta accadendo ai nostri mari, ho smesso».

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