Proviamo a ragionare attorno alla possibilità di un approccio normativo (in senso giuridico) alla CSR. La norma è una regola generale, astratta e coattiva, basata sui valori guida di un ordinamento sociale. Fatto sta, che le norme regolano soltanto una parte della nostra vita in società e sono affiancate da una serie innumerevole di regole non scritte che influenzano il comportamento. Il concetto di norma implica quindi una semplificazione, un appiattimento. Anche in statistica, la curva di Bell che rappresenta una distribuzione normale è un modo efficiente per rappresentare molti fenomeni. Qui, il 95% dei casi si concentra a ±1,96sigma dalla media e centrare dei valori in questo intervallo è considerato un grado probabilistico accettabile. L’esperienza però ci dice che sono le code della distribuzione a fare la differenza. Sono i Black Swans (Taleb). Sono i “comici”, che stanno ai margini della società e rivestono una funzione liminale (Bachtin), ma proprio per questo le forniscono una salutare traspirazione con l’esterno. Sono gli outliers, coloro che sfidano le convenzioni. Sono le mutazioni genetiche che portano avanti il processo evolutivo. La metafora evolutiva ci aiuta a comprendere come le code della distribuzione esistono in funzione degli incentivi ambientali. Un processo regolatorio sulla responsabilità d’impresa deve quindi essere inteso non come levelling-off, ma come sistema di incentivi che proattivamente alzi l’asticella, a rischio di spingere fuori dal mercato quelle imprese che si trovano nella coda sbagliata della distribuzione e scommettendo sulla possibilità di “ingrassare” la coda più all’avanguardia. Il mandato del settore pubblico è quello di gestire le priorità, ruolo che diventa critico quando gli interessi privati collidono con quelli pubblici. È quindi perdente qualunque difesa di chi continua a produrre con un sistema datato ed eco-illogico. Sarebbe come esonerare dalla pollution charge chi possiede veicoli inquinanti sostenendo che altrimenti resterebbe a piedi. La soluzione, in questo caso, consiste invece nel fornire un cuscino di mezzi pubblici su cui atterrare morbidamente. La logica del sistema di incentivi e di cuscini è da tenere presente quando si considera se e come legiferare sulla CSR tendendo presente che l’approccio volontario ha costituito finora il limite e la forza della CSR come strumento competitivo. I problemi legati al regolamentare la CSR sono molteplici. Prima di tutto, la sovranità nazionale degli stati si scontra con la globalizzazione. Inoltre, la responsabilità d’impresa è industry-bound o, ancora più precisamente, network-bound. È cioè strettamente specifica della rete del valore di ogni singola impresa, che ne definisce le sfide e le peculiarità. Non ha senso parlare di una CSR in generale. Imprese diverse hanno diverse responsabilità, a seconda del loro modello di business. Quindi, ad esempio, una regolamentazione sul reporting in termini di “triple bottom line” rischia di presentare delle maglie talmente larghe da far proliferare dei CSR report “vuoti” (già ce ne sono molti!); oppure c’è la possibilità che fioriscano una serie di indicazioni minuziose su ogni industria, quindi, per forza di cose, complicate, aggirabili, incomplete, e statiche rispetto all’evoluzione delle reti di imprese e dei modelli di business. Una soluzione potrebbe essere quella di far valere il diritto all’informazione (escludendo per ovvi motivi i segreti commerciali) nei confronti delle imprese. Quindi, far sì che quando un cittadino o una NGO richiede il calcolo delle emissioni di CO2 o l’elenco dei fornitori, un’impresa sia tenuta a comunicarlo. Si tratta di entrare in una logica di trasparenza totale, in cui la persona giuridica impresa ha diritti, ma anche doveri vincolanti, che se non rispettati possono portare ad una sospensione dei diritti stessi (Marcello Coppa)
Un commento di Luca Poma:
Finalmente qualcuno che stimola riflessioni accademiche sul tema della CSR. L’articolo di Marcello Coppa – oltre che ben scritto – solleva un problema non da poco: sollecitare la maturazione del settore od imporre ope-legis? Come per le quote rosa, in via naturale propenderei per la prima soluzione, anche se la tentazione per la pragmaticità della seconda è seducente… Tuttavia, penso sia ben chiaro a tutti che un sistema che mira ad elevare la sensibilità di un settore “a colpi di decreto” è del tutto immaturo e sul lungo periodo, se il fenomeno non è governato adeguatamente, è destinato ad implodere e fallire (nel senso che comunque ad affiancare le norme impositive dev’esserci una campagna di sensibilizzazione costante per anni, cosa che il legislatore – sarà perchè costa…? – puntualmente si “dimentica” di fare…). Nella mia esperienza, ho comunque constatato che la via mediana e spesso quella vincente (“In medio stat virtus”): sensibilizzare, e contemporaneamente non imporre, bensì incentivare. Ovvero: una campagna massiva sul tema (in Italia mai promossa, purtroppo…che fa la Ferpi?) e contemporaneamente un sistema premiante per chi CSR la fa davvero (sconti fiscali? agevolazioni nei rapporti con la PP.AA.? la discussione è aperta, avanti con i suggerimenti…)