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La necessità di un rapporto biunivoco tra aziende e onlus

La keyword è “condividere” e va declinata in modo da creare vere e proprie partnership tra imprese e onlus. La strada del “non conventional charity” può contemperare l’esigenza di fare business e – contemporaneamente – la necessità di non ridurre la Csr a mera beneficenza.
È piuttosto singolare trovarsi sia nel ruolo di addetto ai lavori del settore comunicazione, con mandati in area Csr da parte di aziende di medie e grandi dimensioni, e sia – contemporaneamente -– portavoce  di “Giù le Mani dai Bambini”, il più rappresentativo comitato indipendente per la farmacovigilanza pediatrica nel nostro paese. Come dire: essere da entrambe le parti, da un lato impegnato a progettare interventi di responsabilità sociale per le aziende, dall’altro pronto a tendere le mani ad ogni occasione utile per sostenere la missione sociale della nostra onlus. Un vantaggio in questo potenziale conflitto d’interessi, però c’è: è il raro privilegio di godere di una visione dello scenario davvero completa.
Proverò quindi ad impegnarmi in un’analisi intellettualmente onesta sul tema della Csr e sui desiderata di aziende ed onlus.

Le istanze delle aziende

Le aziende, nella maggior parte dei casi, vogliono farsi pubblicità, nulla di più. Si passa dall’ormai obsoleto – ma sempre in voga – “quanto avanza a fine anno, a che onlus lo versiamo?” al più sofisticato “come possiamo uscire di più sui giornali, che progetto possiamo elaborare?”. Le imprese con una chiara percezione del proprio ruolo sociale, consce di essere parte di una “rete neurale complessa”, sono rarissime. Inoltre la confusione è tanta, si continua a sovrapporre la charity con la Csr, incapaci come sono spesso gli imprenditori di uscire da una dimensione meramente filantropica (sempre che ne abbiano una…). Sorrido amabilmente quando un AD cerca di convincermi che la sua l’azienda “fa già Csr”, quando invece finanzia solo progetti. Sponsorship non è partnership, ed è di tutta evidenza che la sponsorship sia solo uno degli strumenti della Csr, e francamente neppure il più intrigante ed efficace, anzi, certamente il più datato ed il meno originale. La Csr è tutt’altra cosa…

I desiderata delle onlus

Passiamo brevemente al lato onlus. Cosa vogliono le organizzazioni non lucrative di utilità sociale? Spesso loro vogliono soldi, punto e basta. Gli enti pubblici latitano, l’epoca dei finanziamenti a pioggia è da tempo finita, il “trucco” oggi è farsi finanziare progetti con margini tali da ricavarne un mark-up adeguato a coprire le spese correnti di struttura, sennò non si sopravvive e si smette di fare del bene.

Qualche esempio di Csr di successo…

Abbiamo esaminato in poche righe il lato negativo della medaglia. Ma non è sempre così, ci sono attori in questo scenario che sono in grado di innovare.
Illy Caffè si presenta come una “stakeholder company”: ha uno staff agguerrito e qualificato, dedicato a tempo pieno alla creazione di progetti in grado di fare da “ponte” nel dialogo con i propri pubblici d’interesse. UniCredit chiude le proprie filiali – tutte e 2.500! – una mattinata all’anno per discutere con i dipendenti il proprio bilancio sociale: provate a fare un conto approssimativo dei costi per la banca… Guna Spa ha rinunciato a tutti i propri brevetti di prodotto e di processo per favorire una reale circolazione della conoscenza, rendendo “copyleft” anche le pubblicazioni della propria divisione editoriale e tutti i contenuti delle ricerche scientifiche, andate a buon fine o con esito negativo. Vodafone ha rottamato i cellulari usati degli studenti, ricambiando la disponibilità delle scuole a collaborare al progetto montando pannelli solari sui loro tetti, rendendole così energeticamente indipendenti.
Ed anche dall’altra parte della barricata – lato onlus – ci sono eccellenze degne d’attenzione. Noi di “Giù le Mani dai Bambini” non abbiamo mai incassato donazioni a fondo perduto dalle aziende: ci piacciono le operazioni di co-marketing, ed amiamo coinvolgere gli interlocutori nei nostri progetti: non vogliamo sentirci la valvola di scarico dei residui di bilancio di fine anno, né il mero tramite di un’idea di visibilità aziendale propria ormai solo più degli uffici stampa convenzionali. Come noi, altre realtà che puntano a costruire una relazione duratura con i propri stakeholder: Coopi, nata nel 1965 dalla volontà di un solo uomo, è ora presente in 24 paesi del mondo, e rendiconta il proprio impegno ogni anno dettagliatamente. Anche Acra fa del rapporto con le aziende una strategia finalizzata non solo a raccogliere fondi, ed ha vinto proprio pochi giorni fa l’Oscar di Bilancio nella categoria no-profit per la chiarezza e completezza del proprio report sociale. La differenza – lo ribadisco – è tutta qui: la keyword è condividere.

…e cosa c’è da “rivedere”.

Le aziende si riempiono la bocca con la parola “Csr”, pensando di poter assolvere ai propri obblighi sociali “adottando” una onlus da sostenere, complici i consulenti del settore, pronti a certificare con il bollino-qualità politiche di Csr promosse da improvvisati esperti incapaci di mappare seriamente i portatori d’interesse della propria mandante, ed interessati prioritariamente a garantirgli qualche servizio giornalistico in più.
Cosa debbono fare le onlus, alzare bandiera bianca e riempirsi i forzieri di denaro, facendosi megafono di quante più aziende possibili, assecondando la loro bulimia di redemption sui media e l’ipertrofia dell’ego dei vari amministratori delegati, pronti a qualunque cosa pur di poter prendere in mano un microfono per un’intervista?
Ho letto qualche settimana fa una pubblicità che promozionava l’impegno di una nota big-pharma in Africa, che ho citato con schiettezza in altri articoli ed il cui nome non ripeto qui per non creare imbarazzi ai colleghi di AboutPharma. Questa multinazionale è tutta intenta in questi mesi a vaccinare milioni di bambini dalla malaria, peraltro facendosi pagare i vaccini, ancorché a prezzo di costo: produce vaccini per il nord del mondo, regala – o quasi – vaccini  al sud del mondo. Si potrebbe fare di più e meglio, ma è un’ottima iniziativa. Mi è però tornato in mente quando – 3 anni fa – la stessa azienda ha fatto causa al governo indiano ed a quello sud-africano: non ci interessa se i vostri bambini muoiono di Aids, noi ai retrovirali generici ci opponiamo, perché il brevetto è nostro e ce lo teniamo stretto, non intendiamo condividere questa conoscenza. Come hanno potuto in quell’occasione l’ufficio marketing e quello legale avere la meglio sul buon senso e sulla consapevolezza di essere padri, e prima ancora uomini ed abitanti di questo pianeta? E adesso come posso io non intendere il pur lodevole progetto dei vaccini contro la malaria in Africa come una raffinata operazione di green-washing atta a rifarsi una verginità sotto il profilo della brand-awareness?

Una non- conventional charity?

Ebbene, io credo in un modello diverso. Credo in una non-conventional charity. Credo sia giusto fare business, ma sono convinto che il business possa e debba avere un volto umano, e sono certo che questo – possibile che così in pochi lo capiscano? – non  faccia che aumentare anche il valore per gli azionisti, nel medio-lungo periodo, più di tante effimere conferenze stampa. Tra noi consulenti del settore comunicazione si usa dire che con la carta dei giornali il giorno dopo ci si incarta il pesce: l’indice reputazionale, quello invece sì che è importante, e quando il saldo è positivo è destinato a durare. Va coltivato giorno dopo giorno, dialogando con i propri stakeholder, domandandoci: “cosa desiderano da me? Cosa vogliono sapere? Come posso fare per irrobustire sempre più quel sottile filo che mi lega a loro?”.
Questo è vero sia coté azienda che coté onlus. Quante onlus dispongono di un ufficio relazioni con gli stakeholder? Ma ancor prima: quante onlus hanno seriamente mappato i propri stakeholder? E perché mai l’unico stakeholder importante devono essere considerati i donatori? Forse che un miglioramento generale dell’indice reputazionale di una Oonlus non stimola lo stakeholder donatori ad intervenire con maggiore generosità, a donare più convintamente?
E cosa si aspetta una seria ’organizzazione non lucrativa, da un’azienda? Di nuovo: si aspetta di condividere. Prima ancora che un versamento in denaro, pure importante, il desiderio è quello di condividere idee, progetti, sensibilità, DnaNA, scopi. Si aspetta linee guida chiare ed accessibili ancor prima dell’appuntamento di presentazione, così da organizzare un briefing interno alla oOnlus e potersi presentare all’incontro con le idee chiare.
Un esempio banale:  prima di scrivere questo articolo, ho analizzato rapidamente dieci siti internet delle big-five nel settore pharma allopatico e non convenzionale. Ebbene, s: solo due farmaceutiche – Eli Lilly Italia per l’allopatico, e Guna Spa per il complementare/non- convenzionale – pubblicano linee guida per le parntership sociali accessibili direttamente in rete, in lingua italiana, senza necessità di inoltrare una richiesta all’azienda. Mi chiedo allora: l’accessibilità e la trasparenza non sono forse un valore da tutelare?
La sensazione che ho maturato fino ad oggi lavorando in questo settore è di un’immaturità diffusa: esperti di Csr non qualificati, riciclati dal settore comunicazione o marketing e senza una specifica competenza, aziende impegnate in progetti di Csr che altro non sono se non unconventional marketing, ed onlus che faticano ad uscire dalla dimensione della mera beneficenza.
La consapevolezza di rivestire un ruolo sociale in uno scenario articolato, con interconnessioni forti tra stakeholder, è merce ancora molto rara, e spesso gli stessi consulenti, che dovrebbero spiegare alle aziende la necessità di comunicare in modo strutturato con gli altri protagonisti della società, parlano poco tra loro e mai si confrontano efficacemente sull’evoluzione del comparto.
A quando gli “Stati Generali” della corporate social responsibility?
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