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Come decrescere serenamente

Non più sviluppo, neanche “sostenibile”. E basta con l’idea di una “crescita virtuosa”. Siamo giunti all’epoca della decrescita radicale. Serge Latouche, 68enne antropologo, economista, filosofo francese, autore di diversi saggi, è convinto che occorre rivedere il mito del progresso, base di ogni idea della sinistra da almeno 160 anni, perchè l’interesse dell’umanità non è accumulare, ma “sconfiggere uno stile di vita che ci ha resi schiavi dei beni che continuiamo ad acquistare. Perchè assomigliamo a dei drogati che per un’illusione di felicità continuano a scommettere tutto sulla crescita, crescita del Pil (prodotto interno lordo) e crescita dei consumi. mentre il benessere significa semplicemente vivere bene, trovare il giusto equilibrio tra bisogni, consumo, tempo libero”. Per Latouche non occorre essere più poveri per essere più felici, basterebbe diminuire gli eccessi, fare a meno di cose inutili che accompagnano le merci, dalla pubblicità agli involucri costosi, ai trasporti da un capo del pianeta ad un’altro.
Latouche è un bel signore con una faccia da marinaio bretone e uno stile di altri tempi. Uno stile in piena coerenza con il suo programma delle “8R”: rivalutare, riconcettualizzare, ridistribuire, riciclare, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, ristrutturare, e che l’ha fatto bollare di volta in volta come “sognatore” e perfino come “reazionario”. Infatti il filosofo gode delle simpatie non solo dei no global, ma anche della nuova destra francese di Alan de Benoist e di settori della Lega nord. “Ammetto che il mio possa essere definito un progetto retrogrado”, concede Latouche, “nel senso che quando si è imboccata una via senza uscita, si deve per forza arretrare”.
Per questo una proposta come decrescita?
“La decrescita non è un concetto, ma uno slogan che vuole provocare. Sarebbe più corretto parlare di “acrescita” ricordiamo che la società occidentale ha come fine il “crescere per crescere”. Consumo, produzione, lavoro, profitto: abbiamo dimenticato la gioia di vivere, i nostri bisogni”.
Anche la sinistra oggi parla di crescita: responsabile, consapevole, ma pur sempre crescita.
“Marx sbagliava sostenendo che fosse possibile sostituire all'”accumulazione” cattiva del capitale – accumulazione è il nome marxista della crescita – quella buona di un’altro sistema. La scommessa della decrescita è che l’umanità possa fare una rivoluzione culturale, uscire dalla società di accumulazione illimitata. Invece di prendere come slogan, come fa il governo francese attuale, “lavorare di più per guadagnare di più”, lavorare di più per vivere meglio”.
Vuole fare qualche esempio?
“Il primo che mi viene in  mente. Dietro a ogni prodotto che consumiamo, mangiamo, usiamo ci sono milioni di chilometri, file di camion, consumi in pubblicità e packaging. In nome della razionalizzazione economica abbiamo distrutto la ragione”.
Non è un giudizio troppo pessimista?
“il mio è un pessimismo della ragione e ottimismo della volontà. Forse possiamo fermare la catastrofe. Ma gli scenari che si presentano sono terribili. Si parla spesso dei rapporti del Club di Roma. Ma di rado si fa riferimento all’ultimo della serie, del 2004: il più ottimistico degli otto scenari previsti, che pure richiederebbe misure drastiche, indica che il nostro sistema non arriverà a superare il 2060. Mentre il più cupo anticipa la catastrofe al 2030, anno in cui dovrebbero esaurirsi le risorse.
Stava parlando delle risorse che mancheranno. Lei dice spesso che non è la crescita demografica il vero problema.
“Il problema non è il numero di abitanti del pianeta. Il guaio è una società che ha come obiettivo produrre di più, consumare di più, generalmente rifiuti – 4 miliardi di tonnellate l’anno dai paesi ricchi – e danneggiare l’ambiente.  Se tutti consumassero come gli americani, per far fronte alle nostre esigenze servirebbero sei pianeti come il nostro. Se vivessimo come cittadini del Burkina Faso la Terra potrebbe accogliere agevolmente 23 miliardi di abitanti”.
Deve però ammettere che rispetto agli abitanti del Burkina Faso abbiamo qualche vantaggio: il progresso ci ha regalato cibo, acqua pulita, farmaci.
“Certo. Ma siamo troppo viziati, pensiamo solo alle malattie dovute a un’alimentazione  troppo ricca di grassi, zucchero, sale. Non auspico la rinuncia alle tecnologie. Dobbiamo imparare a conservare della modernità ciò che è utile. Ma senza esagerare. Per esempio: l’acqua potabile. Costruiamo piscine private dimenticando che fare il bagno è un piacere da condividere. In Sardegna ho visto alberghi con piscina a due passi dal mare. Io faccio volentieri una doccia quotidiana, ma quando ho attraversato le regioni dei Dogon nel Mali ho dovuto vivere per giorni senza lavarmi. Arrivato a Bamako sono stato contento di mettermi sotto l’acqua: ma le esperienze, gli incontri che ho fatto mi hanno ripagato ampiamente del loro sacrificio”.
Imparare ad essere felici con poco.
“C’è chi sostiene che si può essere felice guardando la pubblicità e andando al supermercato. Ma ci sono statistiche che mettono in dubbio queste convinzioni, come quella della diffusione dei suicidi o delle malattie mentali: la Francia, ad esempio, è in testa nel consumo degli antidepressivi. Il fatto è che siamo tutti stressati, viviamo nell’angoscia di non essere all’altezza dei compiti che ci sono proposti. Da un certo punto in poi, dagli anni ’70, la crescita economica non ha più generato effetti positivi sul benessere”.
Parliamo del cibo?
“Nel mangiare bene non c’è niente di sbagliato, anzi, a me piace il cibo buono. Ma abbiamo davvero bisogno di tanti tipi di biscotti, yogurt, pasta? Consumiamo gamberetti danesi che sono lavorati in Marocco, e tornano in Danimarca per ripartire verso i luoghi di distribuzione. Mi è capitato di vedermi servire yogurt sloveno in Sicilia, dove potevo vedere le mucche al pascolo nel prato vicino all’albergo. C’è chi ha ribattezzato la nostra società Absurdistan”.
In questo scenario l’alimentazione ha un ruolo importante.
“Apprezzo molto Carlin Petrini, e non solo perchè Slow Food ha scelto come emblema la lumaca: un esempio di moderazione – lo riconosceva già Ivan Illich – per come cresce il suo guscio in modo coerente con le sue necessità.
La passione per la lentezza non riguarda il cibo.
“In effetti, no. Dobbiamo imparare di nuovo a godere di quello che non si può comprare: una convinzione, un pranzo tra amici, un ambiente di lavoro dove ci di sente bene, la partecipazione a qualunque forma di attività culturale o sportiva. Riscoprendo il piacere di perdere tempo e riducendo il tempo di lavoro”.

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