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Parto da un assunto: quello che le domande siano diventate scomode, non solo quelle che scomode intendono esserle ma anche quelle che vorrebbero solo stimolare riflessione, confronto e dialogo. In molti casi sembriamo addirittura insofferenti, infastiditi, intolleranti alle domande. Con piccoli vantaggi immediati nel rifiutarle o aggirarle, ma conseguenze anche gravi nelle nostre relazioni.

È una tendenza riscontrabile su vari livelli delle interazioni sociali. Partendo dall’alto è ormai un tema ricorrente il cattivo rapporto di evitamento e conflittualità tra la Prima Ministra Meloni e i giornalisti. Talmente palese che è ormai “iconico” (esistono molte foto che evidenziano questo atteggiamento) e “strutturale” (molti articoli trattano il tema sotto vari aspetti. Uno per tutti un autorevole quotidiano americano di destra come il Washington Post, qui in italiano). Le critiche alla Premier hanno riguardato, tra le varie cose: il numero ridotto di conferenze stampa, l’atteggiamento di conflittualità coi giornalisti che pongono domande, il fatto che gli esponenti del suo partito disertino le reti o le trasmissioni non allineate, le querele temerarie (intimidatorie verso giornalisti di diversa opinione o parte politica), ma anche i no comment o le mancate/negate risposte, comportamento peraltro comune a molti politici.

Sono dunque così terribili e temibili le domande della stampa? Pare piuttosto che siamo di fronte a un modello culturale e a un sistema di pensiero che preferiscono:

  • il monologo (ad esempio con la videorubrica “L’agenda di Giorgia” che crea un senso di intimità, autenticità, trasparenza però del tutto fittizio)
  • il dialogo asincrono e asimmetrico dei social (dove si evita il fatto di dover rispondere immediatamente alle domande e alle obiezioni attraverso la disintermediazione e si ha una posizione di totale controllo sul pubblico decidendo chi ammettere a rispondere o chi “bannare” attraverso la moderazione)
  • la polarizzazione (dando per scontato a priori l’antagonismo e anzi, perseguendolo e consolidandolo inseguendo posizioni sempre più estremiste come ci spiega uno studio del Carnegie Endowment for International Peace).

I “QUESTION DODGERS”: I LEADER A STELLE E STRISCE E LE LORO TECNICHE PER AGGIRARE LE DOMANDE

Shane Snow, giornalista, autore di best seller e imprenditore della comunicazione fa una bella ricostruzione in cui riconduce il problema del “dodging questions” (così è definito universalmente in inglese lo schivare o aggirare le domande) e delle sue tecniche nel campo della “disonestà intellettuale“. Snow elenca alcuni casi con delle vignette molto divertenti che rappresentano le tecniche preferite da noti politici o personaggi televisivi statunitensi.

There is only one intellectually honest way to dodge a question. And that’s to actually say that you don’t want to answer the question, or you don’t think the question is worth answering.Sean Snow, “Intellectual Dishonesty

Dirchiaramente che non si vuole rispondere“potrà essere “l’unico modo onesto di evitare una domanda“, come dice Snow, ma è anche spesso interpretabile come una ammissione di responsabilità o genera il dubbio, all’interlocutore, che si abbia qualcosa da nascondere.

Purtroppo non tutte le forme di “dodging” sono altrettanto facilmente rilevabili e, come dimostra una ricerca di Harvardsono frequenti i casi in cui l’interlocutore NON si accorge che la sua domanda è stata evitata o raggirata.

L’EVASIVITÀ: UNA PRATICA “FAMILIARE”

Le tecniche per evitare domande, specialità di molti politici, sono un fatto comune che impariamo sin da bambini nelle relazioni domestiche e scolastiche con genitori, insegnanti, compagni e compagne. E non vale solo per i più piccoli, spesso sono proprio gli adulti a evitare o aggirare le domande dei bambini perché non sono sicuri di come rispondere.

L’”evitamento” (“avoidance coping” in inglese e nel linguaggio scientifico psicologico) è anche un meccanismo di difesa volto a placare l’ansia che, nei casi gravi, costituisce un vero e proprio disturbo della personalità (Avoidant personality disorder (AVPD) o Disturbo Evitante di Personalità). Chiaramente non si può sostenere che il “question dodging” sia indicatore di un disturbo grave, ma vari tratti o sintomi di questo disturbo della personalità sono in realtà sovrapposti alla pratica di evasività o evitamento delle domande. Dalla scarsa autostima al senso di inferiorità, sentimenti di inadeguatezza e timore del rifiuto, una particolare sensibilità alle critiche sono segni del Disturbo Evitante di Personalità, ma anche potenziali cause dell’evitamento delle domande.

Insomma, evitare le domande è sicuramente una malizia al confine con la menzogna, anche se potrebbe avere radici più profonde di natura psicologica.

PR E MEDIA TRAINING: L’ADDESTRAMENTO A EVITARE LE DOMANDE COME “SKILL” DA SVILUPPARE

Se l’evitare le domande è da alcuni considerato un venir meno ai propri doveri politici o manageriali, in molti casi è vista, invece, come una tecnica da coltivare e sviluppare. Nel mondo delle Public Relations è prassi comune organizzare corsi o servizi di “Media Training”. Come suggerisce il nome si tratta di un addestramento a relazionarsi con i media. Rispondere a un’intervista, parlare in video etc etc. Come possiamo immaginare i media training si sono evoluti con i media e con le interazioni a cui sono esposti i leader, manager, funzionari che lo ricevono. Una pietra miliare di ogni media training è come rispondere, evitare, rimbalzare le domande, specialmente quelle “scomode”. Consapevoli del loro ruolo malizioso, alcuni si specializzano addirittura in “Come aggirare le domande senza sembrare evasivi“. Anche le agenzie di PR più blasonate, serie, professionali come Edelman, seppur usando linguaggi meno espliciti, preparano i clienti a sviluppare:

“[…] the ability to limit or adjust undesirable messages that result from a media interview.”Acing Media Interviews Begins with Better Prep (EDELMAN)

Disintermediare e moderare le domande scomode attraverso i Social Media: OPPORTUNITÀ E RISCHI


Ci sono molti studi sulle dinamiche dei social media e sul perché sono uno strumento preferito da molti personaggi pubblici (ma anche del business) per il controllo che forniscono loro sull’audience e sulle interazioni. Di disintermediazione si parla da molti anni ormai e politici e aziende ne hanno fatto un grande uso attratti dall’idea di potersi costruire un loro pubblico, evidentemente amichevole, e di togliere di mezzo soggetti scomodi quali i giornalisti o i critici. La semplice apertura di un proprio profilo sui Social Network è una forma di disintermediazione in cui un’azienda o un politico “conversano” direttamente con il proprio pubblico. L’uso di video, on demand o live, e di formati in cui “l’azienda diventa editore” o “media company” sono altri esempi in cui non solo si organizza produttivamente il lavoro vista la grande mole di contenuti necessaria ai media digitali, ma si cerca questo rapporto diretto ritenuto comodo in quanto si può addomesticare il pubblico.

Disintermediazione e moderazione, però, hanno un prezzo. Un recente studio, condotto da ricercatori e professori dell’Università di Oslo e Lucerna parla addirittura di “mettere la museruola ai social media

La leva individuata dalla ricerca è la moderazione, potere interamente in mano all’emittente e che consente di passare da una conversazione “crowdsourced” (totalmente spontanea, dal basso”) a una “controlled” (cioé filtrata e selezionata o censurata). Un doppio esperimento incrociato mostra come all’aumentare della moderazione peggiorino significativamente, nei confronti dell’organizzazione che la applica: atteggiamento generale, fiducia, soddisfazione e percezione del commitment dell’organizzazione.

La polarizzazione: GLI ESTREMI come posizione “obbligata”

La polarizzazione, cioé la tendenza diffusa in media, politica e società a schierarsi in fazioni opposte e conflittuali, esaspera queste dinamiche. La crescente polarizzazione, sia all’interno di un gruppo e quindi nei processi decisionali delle organizzazioni sia all’interno dei partiti politici assume dinamiche che accelerano le estremizzazioni e radicalizzano attivisti e leader. Di fronte a attivisti e alle “early majority” (gruppi ancora minoritari, ma prime manifestazioni di consenso aggregato) i leader di partito tendonosecondo una ricerca della Cornell University, a radicalizzarsi sulle posizioni di questi soggetti.

Parties and candidates clearly believe that more polarizing candidates are more likely to win elections. This may be a self-fulfilling prophecy […]Polarization, Democracy, and Political Violence in the United States: What the Research Says – Carnegie Endowment for International Peace

Ecco allora che un leader esposto alle tendenze della polarizzazione di fronte a domande su un tema risponderà rifugiandosi nell’estremismo in cui lui e la sua organizzazione sono (già) polarizzati.

LA CASSETTA DEGLI AMBIGUI. TECNICHE E STRUMENTI PER AGGIRARE LE DOMANDE SCOMODE E DIFFICILI

Ci sono innumerevoli elenchi di trucchi per evitare le domande e ne troverete uno linkato. Ma prima vorrei passare in rassegna alcune tecniche analizzate e studiate in un “paper” del 2018 di David Clementson della scuola di Giornalismo dell’University of Georgia.

Lying (Mentire)

Un modo per “gestire”, evitare, eludere domande scomode è certamente quello di mentire, ma, dice l’autore, “non è certo la menzogna possa essere considerata una forma di dodging”. Sarebbe addirittura più grave, certo, ma alcuni studiosi ritengono appunto il “dodging”, l’”evitamento o evasività”, il “raggiro” una forma alternativa alla menzogna, cui si ricorre per non mentire appunto. Non fatte per una forma (magari discutibile) di attenzione verso il ricevente, ma nemmeno del tutto maligno, diciamo delle bugie grigie.

Strategic ambiguity (cerchiobottismo)

Quando si concorda con diverse posizioni o interlocutori nonostante l’incompatibilità delle stesse.

Equivocation (equivocità)

L’uso intenzionale di un linguaggio poco chiaro volto ad evitare di dover dire cose negative in situazioni in cui non si può non rispondere. Famosa la ricerca, ribattezzata in codice “ugly baby project”, del 1990 di Bavelas et al. in cui situazioni come quella di dover complimentare un neonato hanno “conflicting goals”: non mentire o tacere, ma anche non dispiacere l’interlocutore.

Obfuscation (fumosità)

Simile al cerchiobottismo o “strategic ambiguity” la fumosità è descritta come un modo di sostenere cose contraddittorie o di non prendere chiaramente posizione o di creare un compromesso il cui fine è però quello di salvare la posizione del parlante.

Evasion (Evasività)

L’evasività viene qui considerata più intenzionale e quindi più grave dell’equivocità. I fini sono meno nobili e maggiormente avversi per chi fa le domande. Vi sono, infatti, cose da nascondere più gravi che mere questioni di sensibilità

Artful Dodging (scaltrezza o parlantina)

Colui che “sa rispondere a una domanda su un argomento parlando di un argomento completamente diverso senza che l’interlocutore se ne accorga”. L’espressione viene dal nome di un personaggio di Dickens in Oliver Twist, un ragazzino molto abile a manipolare i discorsi con la propria parlantina o capacità retorica: Jack Dawkins detto, appunto, “The Artful Dodger” (in italiano “lo scaltro”), raffigurato nella cover image (Photo by Larry Ellis/Express/Getty Images).

Topic avoidance (Cambiare discorso)

La topic avoidance si concentra più sul definire ciò che NON si dice di ciò che viene detto. Prevede un interrogato abile e consapevole e un interlocutore sensibile e attento ed “il continuo rigetto, esplicito o implicito, o cambio di argomento in una conversazione”.

Paltering (doppiezza)

Simile al cambiare discorso in quanto evita di esplicitare una posizione, ma più grave in quanto nasconde il disaccordo o fatti gravi o posizioni cruciali dietro una verità diversa e irrilevante. Bill Clinton, per esempio, parlando di suoi “extramarital affairs” non li ammetteva mai, ma rispondeva dicendo che “non c’è mai stata alcuna relazione”. Relazione no, rapporti…

Infine, se proprio volete cimentarvi anche voi nel “question dodging”, ecco una guida in 17 punti per… lascio a voi dichiarare le intenzioni. Sappiate, però, che state mettendo a rischio la fiducia degli altri verso di voi e la vostra reputazione.

Come uscirne? Allenarsi alle domande e alla diversità.

Sean Snow ci offre anche un percorso virtuoso in cui costruire le condizioni per evitare di… evitare le domande. Si tratta di coltivare la diversità e far fiorire il:

  • Discorso (cioé lo scambio di opinioni e idee)
  • Dibattito (il confronto in merito a queste idee).

Per farlo dovete assicurarvi di:

A) Avere attorno a voi persone che la pensano diversamente (la “cognitive diversity” preziosa nelle realtà organizzative)

B) Farle collaborare (creare la “cognitive friction”),

C) Essere aperti al cambiamento (usando l’“intellectual humility”).

Sembra facile, ma come ben sappiamo accettare la diversità è la sfida più grande e comincia con l’accettare, o anzi proprio volere accanto a sé, chi la pensa diversamente da noi.

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