Molti credono che il barone Marcel Bich, fondatore della dinastia industriale Bic, sia stato un personaggio francese.
In realtà non è così, egli fu torinese e nacque in corso Re Umberto 60, nel cuore dell’elegante quartiere della Crocetta; diventò poi francese in seguito, come vedremo.
Il suo nome, che suona effettivamente come d’oltralpe, ha origine da una famiglia della nobiltà savoiarda e precisamente di Châtillon, in Val d’Aosta.
Fino a sedici anni rimase nella nostra meravigliosa città per poi venir naturalizzato francese quando con i genitori emigrò a Parigi ed e lì che completò gli studi universitari.
Gli inizi per il giovane Marcel nel mondo del lavoro erano ancora lontanissimi dai grandi successi futuri. Si dedicava difatti alla vendita porta a porta, come rappresentante d’inchiostri e commerciante di lampadine.
Poi, nel 1953, ci fu la svolta. Quell’anno per il barone fu il momento cruciale.
Fu come per il petroliere americano che scopre il suo primo giacimento, come per l’inventore che sa di aver per le mani un prototipo dalle uova d’oro, come per il cacciatore di diamanti di fronte ad una pietra grande come una palla da biliardo.
Incontrò László József Bíró, un inventore e giornalista ungherese che portava con sé la soluzione al problema delle macchie d’inchiostro lasciate dalle penne stilografiche, ancora in quei tempi le regine indiscusse del mercato della scrittura a mano. Nel suo prototipo, osservando che l’inchiostro era poco fluido, inserì una piccola pallina metallica che permetteva così di far nascere lettere e parole su carta in maniera omogenea, pulita e veloce.
L’idea all’ungherese gli si accese in testa come una lampadina quando osservò dei bambini giocare a biglie sulla strada. Ipnotizzandosi su una biglia che uscita da una pozzanghera lasciava una scia d’acqua sul marciapiede, ecco scoccare il lampo di genio.
Perché dunque non inventare una pallina che scrivesse?
Le intuizioni pionieristiche di Bíró, purtroppo per lui, non ebbero subito una felice evoluzione industriale e commerciale poi.
Negli anni’40, epoca degli sforzi dell’inventore per produrre in serie la sua penna a sfera, non era ancora disponibile una tecnologia adeguata per rendere il prodotto perfetto, semplice e soprattutto economico per sfondare nel mercato di largo consumo che in occidente dopo la seconda guerra mondiale era ripartito con una crescita apparentemente senza fine.
E fu qua, in un momento di difficoltà per lo scoraggiato Bíró che Bich acquistò il brevetto della penna e riprese il lavoro incompiuto, ovvero perfezionare quello che era ancora grezzo e gettarsi nell’arena. Va detto che lo sfortunato Bíró morirà poi a Buenos Aires, povero, senza aver nemmeno annusato quelle immense ricchezze accumulate da chi aveva comprato le sue fatiche, Marcel per l’appunto.
Il barone nato a Torino iniziò dunque l’avventura delle penne Bic (come il suo cognome ma mozzato dell’h) facendo costruire della macchine di precisione da svizzeri e risolvendo definitivamente il problema di inchiostri poco adatti. L’idea di realizzare un prodotto di plastica trasparente fu vincente; ora chi scriveva sapeva esattamente quanto poteva ancora lavorare.
I bassissimi prezzi di vendita garantirono un successo planetario che ogni anno raggiungeva nuovi picche di cifre ed utili. Il design esagonale fu studiato non tanto per estetica ma perché allora i banchi erano inclinati e in questa maniera le biro non scivolavano giù.
Che diffusione! Che guadagni! Che vittorie!
Era ed è un oggetto d’uso quotidiano, diffusissimo a livello globale e “democratico” perché chiunque poteva permettersi di acquistarlo. Ci fu un tempo in cui in Brasile si usava come moneta di scambio, i ragazzini di Bombay ne elemosinavano e durante la Guerra Fredda al di là della Cortina di Ferro la penna a sfera era considerata come un dono prezioso e passepartout per avventure erotiche al pari delle calze di nylon.
Fu un prodotto industriale che diventò uno di quei beni di consumo che si radicò nella storia dell’umanità recente, contribuendo e modificando gli usi e costumi del mondo, al pari della Coca Cola o dei jeans.
Era la rivoluzione dell’usa e getta, del consumo perpetuo.
Dalle penne a sfera la multinazionale Bic, sempre saldamente governata dal padre-barone, si allargò ad altre genialità: l’accendino usa e getta, che sconvolgeva l’idea dell’accendino classico, costoso al pari d’un orologio, e i rasoi di plastica, comodi, pratici e reperibili ovunque (un duro colpo per le sedie dei barbieri).
Era la nuova way of life che avanzava imperante.
Era l’era della plastica che dettava le nuove regole industriali, commerciali e sociali.
Marcel Bich morì nel 1994 a Parigi all’età di 79 anni. Lasciò un impero titanico, con filiali ovunque sul pianeta. Ebbe sempre orrore di finanzieri, tecnocrati e giornalisti.
Quando qualcuno tentava di strappargli un intervista, la sua fedele segretaria giapponese lo freddava con: “Il barone lavora, non ha tempo da perdere”.
Non fece mai ricorso a finanziamenti esterni per gli investimenti che la sua gigantesca società richiedevano di anno in anno, ma ricorse sempre a risorse aziendali, interne. Di temperamento riservato e schivo, dedicò le rimanenti energie alla vela agonistica, sua grande passione nonché croce e delizia, perché con la sua barca “France” non riuscì mai a vincere la Coppa America, pallino su cui si era impuntato.
L’impronta che Marcel Bich, torinese naturalizzato francese, ha lasciato nella storia della grande industria recente è indelebile. Non si tratta solo di leggere su un industriale fortunato e abile commerciante, si tratta di capire qualcosa di più profondo, che ha influenzato masse e comportamenti.
A tal fine basterebbe porsi le domande: Ma quanti miliardi di sigarette sono state accese con gli accendini di plastica colorata? Ma quante guance sono state rasate dalle lame Bic? Ma quanti milioni di chilometri di inchiostro sono stati sputati dalle biro?
Mentre scrivo queste righe, muovo la sguardo sul caos della mia scrivania e conto tre penne sue e due accendini con il suo marchio.
La sua rivoluzione di plastica è ancora ovunque.