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Ci sono libri che hanno molteplici livelli di lettura, spesso destinati a pubblici diversi.
La necessità di approfondire alcuni argomenti specialistici in questi testi trova la strada per fare un giro panoramico dove tutti possiamo trovare godimento e scoprire qualcosa, almeno per un pezzo del percorso.

È il caso de “L’ottava solitudine. Il cervello e il lato oscuro del linguaggio” di Antonino Pennisi, professore ordinario di Filosofia del Linguaggio nel Dipartimento di Scienze Cognitive dell’Università di Messina, che ha un lungo curriculum di pubblicazioni sui temi del rapporto tra  linguaggio e scienze cognitive.

L’ultima pubblicazione trova il modo di stupire anche chi ha letto già la sua ampia bibliografia e, allo stesso tempo, riesce affascinante anche a chi non ha ancora deciso di approfondire questi temi.

La solitudine come momento di ricchezza è un concetto su cui molti filosofi si sono espressi: da Agostino a Heidegger, da Wittgenstein a Nietzsche, che addirittura ne individuava ben sette gradini verso una forma perfetta, passando dallo sviluppo di nuovi livelli di comprensione sensoriali, visiva e uditiva, ad esempio, all’apertura della logica e della possibilità emozionale e sentimentale per acquisire altri aspetti della verità che infine porteranno alla settima e ultima solitudine, il distacco dal mondo.

Un’ascesa inquietante, soprattutto per chi si occupa di relazioni pubbliche e trova nel confronto, nella condivisione e nello scambio gli elementi essenziali per costruire significato.

Eppure questa lettura semplicistica della solitudine rischia di sottovalutare un elemento indispensabile, che Pennisi mette invece al centro della trattazione: è l’ottava solitudine, ovvero quella dove “il linguaggio può farsi autocoscienza”. Uno spazio necessario, a cui il nostro cervello ha persino dedicato un network di reti neurali, che si trovano nel cosiddetto DMN, ovvero il Default Mode Network. Si tratta di un insieme di ragioni cerebrali che si attivano in maniera quasi esclusivamente complementare, escludendosi cioè a vicenda. Quando siamo impegnati in compiti che richiedono la nostra attenzione verso l’esterno, se ne attiva una; quando invece ci troviamo in uno stato di riposo e solitudine interiore, si attiva l’altra. Quest’area, presente anche in altre specie animali come scimmia, gatto e topo, comporta un alto dispendio energetico. Il paradosso è che il nostro cervello, analizzato attraverso i moderni metodi di tracciamento di immagine cerebrale, consuma di più quando è “a riposo” che quando è impegnato nella risoluzione di un problema.

Cosa accade nell’area del nostro cervello quando “riposa” in solitudine dalle attività del mondo? Le ipotesi sono diverse e ancora ampiamente dibattute; le posizioni più accreditate tra i vari studiosi sono tutte legate alla consapevolezza personale o sociale dell’individuo, un tassello fondamentale per chi si occupa di Relazioni Pubbliche.

Ecco le principali.

1. L’ipotesi della preoccupazione
Le indagini scientifiche rivelano che i pazienti monitorati in questo stato hanno trascorso la maggior parte del tempo a pensare al loro passato o al loro futuro e in particolare a fatti appena accaduti o a quelli che si sarebbero verificati da lì a breve.
2. L’ipotesi del ricorso intensivo alla memoria autobiografica
Le persone monitorate hanno passato in rassegna ricordi personali che coinvolgono forti componenti emotive, spesso con l’obiettivo di avere spunti per risolvere problemi attuali.
3. L’ipotesi del default self
Si tratta di un’attività cognitiva che genera narrazioni e autonarrazioni del sè, sia sull’aspetto corporeo che spirituale.
4. L’ipotesi della cognizione sociale e della teoria della mente
Le attività che prendono vita nella mente richiedono delle simulazioni, scene immaginate o decisioni morali. In questo caso si generano mappe cognitive sul comportamento che l’individuo potrebbe avere in occasioni di interazione sociale.

Tutte e quattro le ipotesi mi sembrano particolarmente rilevanti per chi si occupa di comunicazione; la quarta, in particolare, svolge un ruolo fondamentale nella maturazione relazionale dell’individuo che, attraverso le simulazioni mentali, esplora le varie possibilità relazionali, aggiusta il tiro, le seleziona, rafforza alcuni aspetti e ne modifica altri.

Se è vero, infatti, che, le relazioni hanno una componente esperienziale fondante, l’ottava solitudine ci aiuta a ritrovare l’importanza del contributo che ciascun singolo dà alla relazione, non solo nell’azione, ma anche nella maturazione di una consapevolezza personale che rafforza le interazioni umane “in potenza” attraverso la simulazione cognitiva.

Cosa ha quindi da dirci – e da darci – oggi l’ottava solitudine?

Una prospettiva cognitiva più completa, in cui scopriamo cosa accade nei momenti in cui il nostro cervello è “a riposo”.

Una prospettiva psicologica, che dà valore alla costruzione della consapevolezza come strumento individuale di accesso alla propria vita interiore, ma anche alle possibilità che questa possono intessere nella comunità.

Una prospettiva sociale, che ci aiuta a restituire valore al contributo del singolo nella costruzione delle relazioni.

La possibilità di rileggere questa epoca di continua connessione come uno spazio da non subire, ma da gestire.

Perché se è vero che “l’igiene della solitudine può atterrire questi giovani, stiano essi dalla parte degli influenze o da quella dei follower”, d’altra parte come ci dice Pennisi nell’introduzione del libro, “fermarsi ad ascoltare in silenzio il linguaggio interiore, ciò che abbiamo da dire a noi stessi, in primo luogo, è un esercizio cognitivo da cui non possiamo esimerci per salvaguardare la salute mentale e la ricerca della felicità”.


L’ottava solitudine
Il cervello e il lato oscuro del linguaggio
Antonino Pennisi
Il Mulino, 2024
pp. 192, € 22,00 

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